Mar. Giu 17th, 2025

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Goffredo di Buglione: Il crociato perfetto?

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Goffredo di Buglione è entrato nel mito come “il liberatore” (a suon di massacri) di Gerusalemme, ma il suo mito postumo è assai lontano dalla realtà

Egli è passato alla storia come “il capitano/ che il gran sepolcro liberò di Cristo “, il quale “ molto operò col senno e con la mano /molto soffrì nel doloroso acquisto“

Ma Torquato Tasso che scrisse questi versi nel Cinquecento, era più poeta che storico e quindi si concesse alcune licenze, appunto, poetiche.

Fra queste cosiddette licenze le principali da segnalare sono:

  • La prima: Goffredo di Buglione non era capitano ma Duca;
  • La seconda: a conquistare Gerusalemme non fu soltanto né principalmente lui;
  • La terza: l’acquisto fu sì doloroso, ma per i vinti, che vennero trucidati senza distinzione di sesso né di età.

Chi fu dunque, al di là delle leggende, il (presunto) super condottiero della prima crociata?

Iniziamo col dire che in realtà si chiamava Godefroy e che Buglione è una traduzione casereccia di Bouillon, cittadina del Lussemburgo (non lo stato attuale, bensì l’omonima provincia Belga) dove la famiglia del “capitano“ aveva un castello.

Lui però non nacque lì, ma quasi di sicuro a Baisy-Thy, frazioncina di Genappe, che è anch’essa in Belgio, ma nella regione del Bramante, più incerta del luogo di nascita e la data, per convenzione, si parla del 1060 circa.

Ma perché se era nato altrove, Godefroy è chiamato di Buglione?

Per rispondere occorre fare un passo indietro e dire due parole sulla famiglia materna del futuro crociato, che aveva un albero genealogico strapieno di Goffredi (il nostro era il quinto), un grande feudo in Lorena (Francia) e una salda devozione per l’impero, allora impegnato in quel duro braccio di ferro con il papato che va sotto il nome di “lotta per le investiture“, però suo zio Goffredo lV detto il gobbo aveva sposato Matilde di Canossa, supporter del papa.

Quel matrimonio politicamente spurio era finito malissimo

Prima lei aveva lasciato lui, poi lui aveva fatto oggetto lei di un cocciuto stalking, infine narra un antico cronista, Landolfo Seniore da Milano-lei aveva fatto uccidere lui “mentre stava seduto al cesso, infilandogli una spada nell’ano“

Ammazzato in quel modo atroce, il povero zio Goffredo fu trattato male anche da morto, perché l’imperatore Enrico lV, dimenticò dei servigi da lui ricevuti e, col pretesto che il defunto non aveva eredi, ne aveva confiscato il feudo.

Che Goffredo lV non avesse figli era vero

Matilde gli aveva dato solo una bambina, morta in tenerissima età, però lo sfortunato nobiluomo lorenese aveva indicato come suo successore un nipote minorenne, il nostro Godefroy.

Finì che l’imperatore, pur confermando le confische in Lorena, tacitò il giovane erede assegnandogli il titolo di conte (poi duca) e certe terre periferiche del feudo dello zio, tra cui appunto il Lussemburgo belga, Bouillon compresa, obbediente, Godefroy si stabilì lassù e diventò così “di Buglione“

Se le date convenzionali sono giuste, quando zio Goffredo morì (1076) il suo omonimo nipote aveva solo 16 anni e ne aveva 35 quando papa Urbano ll indisse la prima crociata

Era una chiamata alle armi rivolta a tutto il mondo cristiano, ma soprattutto ai francesi, che il pontefice blandiva ed incitava attribuendo loro “insigne gloria nelle armi, grandezza d’animo, agilità di membra“, Godefroy rispose subito all’appello, forse per ardore religioso, forse per opportunismo, forse per vendetta.

L’ipotesi più probabile comunque è la seconda, infatti la lotta per le investiture era ancora in atto, il papa era in netto vantaggio e la dinastia dei Goffredi, già militante nel fronte avverso, doveva rifarsi una verginità agli occhi del probabile futuro vincitore.

Più curiosa è però l’ipotesi numero tre, quella della vendetta

Ad accreditarla è il De liberatione civitatum Orientis, un libretto scritto da un crociato ligure, Caffaro da Caschifellone, il quale narra che Goffredo andò una prima volta a Gerusalemme coperto non con una corazza militare ma con un saio da pellegrino.

In data incerta fra il 1083 e il 1085, si imbarcò a Genova con tale Roberto, conte di Fiandra, su una nave Pomella, fece tappa in Egitto, poi sbarcò in Palestina e salì a piedi a Gerusalemme.

Tutto filò liscio fino all’ingresso del Santo Sepolcro, dove il custode (musulmano) gli chiese il “bisante“ (la tassa d’ingresso che tutti i cristiani pagavano) .

Ma Goffredo non aveva spiccioli “Perché il suo tesoriere che portava il denaro, si era allontanato“

L’intoppo degenerò in alterco, poi in contatto fisico: “Mentre Goffredo richiamava il tesoriere, uno dei guardiani della porta gli sferrò un gran pugno sul collo, il Duca incassò con pazienza l’insulto, ma pregò Dio che prima di morire gli concedesse di vendicare l’offesa con la spada”.

L’aneddoto è vero?

Sull’attendibilità di Caffaro si nutrono molti dubbi, certo è che una volta indetta la crociata il duca di Buillon si mise al lavoro di buona lena.

Diede in pegno al vescovo di Liegi il suo castello, vendette alcune tenute di quello di Verdun, taglieggiò i sudditi ebrei, coinvolse nella colletta altri nobili, poi con il ricavato arruolò un esercito robusto: 12 mila uomini secondo le stime più prudenti, 10 mila cavalieri e 70 mila fanti secondo le più generose.

Non era l’unica armata in partenza per Gerusalemme, ma la più numerosa sì.

I crociati di Godefroy partirono nell’agosto 109

Il loro capo aveva il physique du role, ”Un grande cavaliere dai capelli lunghi e dalla barba bionda“ lo descrive, sulla scorta di fonti musulmane, lo storico franco-libanese Amin Maalouf, autore del best-seller Le crociate viste dagli arabi .

Ma in realtà Goffredo era capo fino ad un certo punto

Al comando dell’armata c’era un un triumvirato formato da lui e dai suoi fratelli Eustachio e Baldovino.

Eustachio era una figura scialba, defilata che aspettava solo di tornare a casa, come un soldato a fine naja, gli altri,invece, si facevano notare, ma per motivi diversi.

I due fratelli presentavano un contrasto forte, ha scritto uno dei più famosi storici delle Crociate, l’inglese Steven Runciman

Baldovino era ancor più alto di Gofferdo, era scuro quanto l’altro era biondo, ma di carnagione molto chiara. Goffredo era gentile nei modi, Baldovino arrogante e freddo, Goffredo era di gusti semplici, Baldovino pur potendo sopportare privazioni, amava il lusso, Goffredo era casto, Baldovino indulgeva ai piaceri del sesso

Steven Runciman, A History of the Crusades: Volume 1, The First Crusade and the Foundation of the Kingdom of Jerusalem (Cambridge University Press 1951)

La colonna dei tre fratelli seguì per un tratto il Danubio, puntando poi su Costantinopoli

Quasi tutti i crociai raggiunsero la Terrasanta via Italia, con imbarco a Brindisi. Invece la colonna dei tre fratelli seguì per un tratto il Danubio, puntando poi su Costantinopoli.

La  scelta creò qualche problema con ungheresi e bizantini.

Cristianissimi entrambi, Colomanno, re d’Ungheria, per concedere il transito pose condizioni-capestro: “chiese che gli fosse dato in ostaggio Baldovino, fratello del capo con la moglie e la famiglia“ narra Alberto di Aquisgrana, un prelato coevo, autore di una Historia hierosolymitanae expeditionis.

Goffredo non fece una piega

Consegnò il fratello (recalcitrante) e attraversò l’Ungheria senza incidenti, gli andò peggio più avanti, nella Tracia Bizantina, dove in assenza di ostaggi il controllo della truppa sfuggì di mano ai capi della spedizione:

tutta quella terra” racconta il solito Alberto “fu data in preda ai pellegrini e ai soldati in arrivo, che per otto giorni vi fecero tappa e saccheggiarono tutta la regione“

Con questo prologo, ben si capisce che poi i rapporti tra Goffredo e l’imperatore bizantino Alessio non furono mai più cordiali.

Una volta arrivati a Costantinopoli, i crociati furono costretti ad accamparsi fuori città e Alessio intimò a Goffredo di giurargli fedeltà.

Il duca rifiutò, l’imperatore reagì tagliando i rifornimenti ai crociati

In breve tutto precipitò, il duca rifiutò, l’imperatore reagì tagliando i rifornimenti ai crociati e, mentre il prode Godefroy non sapeva più che pesci pigliare, suo fratello Baldovino risolse il problema a modo suo, facendo provviste a suon di rapine nei sobborghi della capitale.

Il braccio di ferro costò diversi morti e durò circa dal Natale 1096 alla Pasqua 1097, infine Goffredo cedette e si sottomise.

Poi a Costantinopoli giunsero altri crociati, imbarcati a Brindisi e lo scenario mutò radicalmente

Il vero capo della spedizione divenne Boemondo d’Altavilla, duca normanno-pugliese, che evitò inutili prove di forza con Alessio.

Anzi, gli promise che tutte le terre conquistate ai musulmani sarebbero state consegnate all’Impero.

Seguì il passaggio del Bosforo (26 aprile 1097) e la lenta calata verso sud-est attraverso l’Anatolia, dove finalmente i crociati smisero di far guerra ad altri cristiani e si scontrarono con i loro nemici naturali, i turchi.

La figuraccia politica che Goffredo aveva fatto a Costantinopoli non fu riscattata sul piano militare

Alla prima operazione di rilievo, l’ assedio di Nicea , il “Duca di Buglione“ si limitò a presidiare un tratto di mura, senza partecipare ai violenti scontri con un’armata turca giunta in aiuto agli assediati.

Il peso della battaglia gravò tutto su altri due comandanti, Roberto di Fiandra e Raimondo di Tolosa.

In quei giorni Goffredo sostenne da solo un duello con un nemico anomalo: Un orso

A narrare l’aneddoto è sempre Alberto di Aquisgrana.

L’orso assalì un pellegrino addetto alle salmerie, ma il duca “afferrata subito la spada e spronato con forza il cavallo” accorse in aiuto al poveretto, mise in fuga l’orribile fiera e la inseguì nei boschi.

Vistosi braccato, l’orso si fermò, abbatté il cavallo del duca, e poi, eretto sulle gambe posteriori, prese a unghiate il nostro eroe.

Benché ferito e atterrato, “dispiacendogli l’idea di morire di morte vile per opera di un animale sanguinario“ reagì e trafisse l’orso nel fianco destro.

Orsi a parte, le prime vere due battaglie che Goffredo sostenne furono nel 1098 ad Antiochia (oggi Antakya, nel sud della Turchia)

Una fu in attacco per prendere la città, l’altra in difesa, per respingere un contropiede nemico.

In entrambe i casi il primattore fu però il pugliese Boemondo, che secondo Caffaro di Caschifellone “Uccise tutti i turchi assassini e li mandò così a patire le pene dell’inferno insieme a Maometto“.

Stavolta anche Goffredo combatteva sul camp, ma come (relativo) comprimario, dirigeva tre schiere di fanti su sette.

Solo il 7 giugno 1099 il Duca di Buglione arrivò in vista di Gerusalemme

Meta prefissata della spedizione da lui fortemente voluta e meno saldamente guidata.

Schierò i suoi uomini all’angolo nord-ovest della città, mentre gli altri comandanti occupavano i lati nord, sud e ovest. Il lato est rimase libero per carenza di truppe.

Un primo assalto alla città scattò il 12 giugno, preceduto da un pellegrinaggio al Gestsemani, l’Orto degli ulivi dove per i Vangeli era iniziata la passione di Gesù.

Ma nonostante le preghiere nell’Orto, l’attacco si risolse in un flop.

A salvare la situazione furono un’eclissi di Luna, l’apparizione di un morto e l’arrivo nel porto di Giaffa di due navi genovesi.

L’eclissi fu interpretata come un segnale premonitore della prossima fine della mezzaluna musulmana, il morto si chiamava Ademaro di Monteil, era un vescovo francese bellicoso e carismatico, che aveva guidato un contingente crociato fino ad Antiochia, dove poi era morto di tifo.

Ebbene il 6 luglio un prete, tale Pietro Desiderio, disse di aver visto il fantasma di Aldemaro, che incitava ad un nuovo attacco.

La notizia risollevò il morale delle truppe, ma un effetto ancor più positivo ebbe l’arrivo delle navi genovesi, che furono subito smontate e trasferite a pezzi sotto le mura di Gerusalemme.

Il legname ricavato servì per costruire due torri mobili (una per Raimondo, una per Goffredo), da usare nell’assalto finale, che iniziò la notte sul 14 luglio con un finto attacco diversivo nel settore nord-ovest ( quello di Goffredo), e due attacchi veri altrove.

L’obiettivo principale era riempire il fossato per consentire alle torre mobili di accostarsi alle mura

L’operazione riuscì per prima lasera del 14, alla torre di Raimondo, che però finì bruciata.

Quella di Goffredo arrivò la mattina del 15 e quando i crociati cominciarono a scavalcare le mura, i primi a salire furono due cavalieri fiamminghi che i libri di storia hanno dimenticato: Litoldo e Giberto di Turnai.

Il duca di Bouillon fu tra i primi a seguirli, ma si fermò sugli spalti, lasciando che a guidare l’occupazione della città fosse un ardito nipote di Boemondo: Tancredi d’Altavilla, futuro principe di Galilea, all’epoca 27enne.

Seguirono giorni da incubo “la popolazione della Città Santa“ scrisse lo storico curdo Ibn al-Athir “fu passata a fil di spada e i franchi massacrarono i musulmani per una settimana“.

La liberazione diventò una Kermesse di macellai, che oscurò per ferocia altre barbarie precedenti

Quando non ci fu più nulla da predare e nessuno da ammazzare, i crociati si posero il problema di dare a Gerusalemme un re cristiano.

Ma i candidati non erano molti, Ademaro, vescovo carismatico, che avrebbe potuto governare in nome del papa, era morto.

Boemondo, vero capo della crociata, si era già sistemato come principe di Antiochia: idem per Baldovino, autoproclamatosi conte di Edessa: Eustachio aveva già pronti i bagagli per tornare a casa: Roberto di Fiandra pure.

Restarono in lizza solo due “papabili“, Raimondo di Tolosa e Goffredo

Il primo però rifiutò, così quel finto capo, grande organizzatore ma cattivo politico e mediocre soldato, divenne sovrano di Gerusalemme, anche se in un sussulto di decenza rifiutò il titolo di Re e scelse quello di difensore del Santo Sepolcro.

Governò un anno, poi si spense e il Regno di Gerusalemme passò a suo fratello Baldovino, come era scritto dal destino.

Note

Bibliografia

  • Le Crociate viste dagli Arabi (Les Croisades vues par les Arabes, 1983), trad. di Z. Moshiri Coppo, Torino, Società Editrice Internazionale, 1989, ISBN 978-88-050-5050-5
  • A History of the Crusades: Volume 1, The First Crusade and the Foundation of the Kingdom of Jerusalem (Cambridge University Press 1951)
  • Alberto di Aquisgrana, Historia Hierosolymitanæ Expeditionis, XII secolo
  • Ali Ibn al-Athir, al-Kāmil fī l-taʾrīkh (“La Storia Completa”, in arabo: الكامل في التاريخ ), 1231 d.C. circa

Morio Higahonna, il Gran maestro ed eterno allievo

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Il 5 settembre 2007, il Maestro Anichi Miyagi concesse a Morio Higaonna il 10° dan di Karate, con il beneplacito di Shuichi Arakaki.

Morio nacque a Naha il giorno 25 Dicembre del 1938

Cominciò a praticare il Karate a 13 anni con suo padre, un poliziotto okinawense praticante di Shoin Ryu,.

Un paio di anni più tardi si allena sotto la guida di un allievo del Maestro Chojun Miyagi, il quale però lo incoraggia a praticare il Goju Ryu ed entra così nel Dojo del Maestro Anichi Miyagi, dove in realtà ad impartire le lezioni era proprio il Maestro Chojun.

Nonostante non fosse conosciuto come Maestro, la tecnica di Anichi era molto pura rispetto a quella di Chojun Miyagi.

Kina Sensei normalmente diceva che i movimenti di mano di Anichi erano molto simili a quelli di Chojun Miyagi e che le sue espressioni e il suo modo di parlare erano esattamente uguali,

Lui era molto preciso nei suoi movimenti, per questo motivo il suo Karate era molto puro in relazione a quello che aveva imparato da Chojun.

Li Morio Higaonna perfezionò la sua tecnica e strinse il legame ancor di più con Anichi Miyagi.


Racconta Morio:

Arrivavo al Dojo verso le 07:00 ed entravo come tutti dal retro.

Normalmente arrivavo per primo e dopo aver salutato la moglie di Chojun Miyagi, mi mettevo a lavorare  mi cambiavo i vestiti e mi mettevo a pulire il Dojo.

Scopavo e lo inumidivo leggermente, per evitare scivoloni durante l’allenamento, quindi tiravo fuori gli attrezzi per l’allenamento che conservavamo dentro riempivo le anfore d’acqua.

Nel giardino del dojo di Chojun, la moglie si incaricava di riscuotere le quote, ma non passò molto tempo che la quota di Morio venne eliminata, come premio dei suoi sforzi, della sua costanza e dei suoi progressi.

Mia madre pagava la mia quota mensile nel Dojo, ma dopo alcuni mesi Myazato Sensei, vedendomi allenare con serietà e duramente, non volle che pagassi più.

Quando portai il denaro a mia madre, lei mi rimandò di nuovo a pagare, ma Myazato non accettò, decisi allora di partecipare di più all’attività del Dojo, insegnando ai nuovi, pulendo ecc…

A volte, Anichi Sensei veniva a casa mia di domenica, affinché se potevo, andassi con lui a casa di Chojun Miyagi, per riparare il makiwara, pulire o qualunque altra cosa fosse necessaria.

Anichi dedicava tutto il tempo libero al dojo del Sensei Chojun Sensei.

“Quando finivamo, la moglie di Chojun normalmente ci dava una tazza di tee e qualche pasticcino, e quando ce ne andavamo ci dava delle borse di arance affinché le portassimo a casa nostra“


Chojun Miyagi muore nel 1953. Sono anni molto difficili per Higaonna Sensei

Chojun Miyagi muore nel 1953, sono anni molto difficili per Higaonna Sensei, perchè deve lavorare su vari fronti, senza trascurare la sua pratica personale.

Nel 1959 Anichi ha bisogno di denaro per mantenere la sua famiglia e si arruola nella marina mercantile.

Assunto da una compagnia petrolifera, Morio perde per il momento il suo quotidiano insegnamento e ad esempio,egli stesso racconta:

Quando Anichi entrò nella Marina Mercantile, logicamente lasciai il Dojo, non mi sentivo più a mio agio, inoltre me ne andai a Tokyo per studiare all’università ed insegnare il Karate, poiché lì c’era uno dei miei compagni, che sostituii nelle lezioni quando lui se ne andò via. Fu un periodo in cui mi allenavo ed insegnavo tutto il giorno, fu un bel periodo!

L’arrivo a Tokyo

Nel 1960 Morio si trasferisce a Tokyo per entrare all’università, recandosi ad Okinawa un paio di volte all’anno come minimo, il che gli permise di non staccarsi dal Karate della piccola isola.

Molto presto inizia ad impartire lezioni di Karate a Takushoku che era un’università con un importante club di Karate Shotokan.

In effetti, a causa di un tremendo scontro in cui uno dei suoi membri si era visto coinvolto, l’università aveva proibito il Karate.

Ciò diede l’opportunità a Morio di iniziare nuove lezioni di Karate, questa volta di Goju Ryu

Poco dopo essersi stabilito nella sua nuova dimora, ed ebbe un gran successo.

Il 30 dicembre 1960 si fecero i primi esami multi-stile di passaggio di Dan ad Okinawa.

I principali istruttori furono promossi 5° Dan, ma M° Morio era contrario ai gradi, pensava che non portassero altro che problemi.

Dopo la laurea in economia Morio inizia ad impartire lezioni di Karate in altre università della capitale del Giappone, e la sua fama crebbe ancor di più.

Questa sua fama gli creò non pochi nemici nell’ambito del Karate

Uno con cui ebbe a che fare per diversi anni fu Eichi Miyazat.

Morio gli chiese anche la collaborazione per mettere fine alle diatribe, ma Eichi rifiutò accusando Morio di tentare di cambiare la storia del Goju Ryu attraverso un suo libro.

La partenza da Tokyo negli Stati Uniti per motivi economici

Giudicando impossibile vivere di solo Karate, Morio si trasferì negli Stati Uniti. Non ci resistette per molto, e tornò ad Okinawa per poter continuare ad apprendere il Karate.

Considerandosi non un Maestro, ma un allievo pronto ad imparare tutto ciò che altri Maestri potessero insegnarli, ancora insegna ed impara.

Il suo Kata preferito è Seishan, continua ad insegnare in un Dojo tipico Okinawense, piccolo, di legno, con un’entrata diretta dalla strada, senza ornamenti, ma solo ricordi.

Note


[COMBATTIMENTO] L’evoluzione storica del Jujitsu

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L’inizio della codificazione delle forme di lotta a mani nude, come il Chikara Kurabe (la prova di forza), o del Bu Jutsu (l’arte del combattimento), non ha in Giappone una data certa.

È evidente che il suo sviluppo fu, come purtroppo in ogni altra parte del mondo, legato all’accrescimento delle necessità belliche, sia d’offesa che di difesa, del popolo stesso.

Nel corso dei secoli si è avuta dunque un’evoluzione di queste arti di combattimento e un loro affinamento dal punto di vista tecnico, con un’interdipendenza molto forte e tipicamente orientale dall’aspetto etico, religioso e filosofico.

Questa molteplicità di nozioni tecniche e di regole di vita ha portato sin dall’origine ad una codificazione necessaria per poter essere tramandata nel tempo; nell’epoca feudale, per tutto il periodo del Medioevo giapponese, sino al decreto imperiale del 1876 che privava i Samurai del diritto di portare la katana e il Wakizashi.

La definizione del Jujitsu si attribuiva genericamente alla forma di combattimento a mani nude ed in alcuni casi con armi

Essa era praticata all’interno di una moltitudine di Ryu (le scuole di arti marziali) disseminate per il Giappone.

Le scuole di arti marziali studiavano e tramandavano dal fondatore del Ryu (il Shodai o Soke) e successivamente dal Maestro del Ryu (il Sensei).

Al discepolo migliore della scuola il Libro o Documento Segreto (il Densho) del Ryu, che racchiudeva le spiegazioni delle tecniche segrete di combattimento lasciate in eredità dagli antichi Bushi (i guerrieri).

Il contenuto di questo libro poteva essere reso noto dal Soke solo agli adepti della scuola, era gelosamente custodito dal clan, anche a costo della vita dei suoi appartenenti e aveva diversi livelli di divulgazione anche all’interno del Ryu stesso.

I discepoli più fidati potevano accedere agli Okuden (i segreti) più reconditi, mentre gli altri allievi avevano accesso all’Omote (la parte più semplice e superficiale delle nozioni).

Frequentemente il Juko Gashira era il figlio dello Shodai o del Sensei e prendeva in conseguenza di ciò il titolo di Waka Sensei (Giovane Maestro).

I metodi di combattimento dei vari Ryu erano molteplici e davano la possibilità ai seguaci della scuola di specializzarsi nelle tecniche di Toshunobu (difesa a mani nude con aggressore disarmato), in quelle di Bukinobu (difesa a mani nude con aggressore armato) o nel Bugei (l’arte del combattimento con le armi).

Vi erano anche ulteriori distinzioni all’interno di ogni Ryu e delle suddivisioni in branche dette Ha che generavano altri Cryugi (stili di pratica).

Ogni Ryu professava la sua invincibilità nel combattimento e non era raro che i vari clan si sfidassero in incontri detti Dojo Arashi (la tempesta che si abbatte dove si studia il metodo)

Tutti i praticanti di un Ryu si recavano presso un altro Ryu rivale con il loro Sensei e si battevano per saggiare l’efficacia del proprio stile, il Ryu sconfitto era così disonorato ed i suoi adepti lo abbandonavano per seguire quello del vincitore.

La codificazione più antica di una forma di combattimento in Giappone riguarda il Sumo, la tradizionale lotta legata ai riti dello Shinto (la religione priva di divinità superiori che venera i principi della natura come Il sole, la terra , la pietra, le piante etc), ma nell’epoca Kamakura (1115 – 1333) i Bushi rielaborarono delle tecniche di combattimento senza armi efficaci anche contro un’avversario che ne fosse stato provvisto, derivanti dall’antica arte del Kumi Uchi (tecnica del contatto, dell’afferrare per iniziare il combattimento) e dal Tai Jutsu (l’arte del corpo), di cui non di hanno notizie certe, che presero appunto la denominazione di Jujitsu.

In pratica il jujitsu serviva al Bushi o meglio al Samurai per giungere all’annientamento fisico dell’avversario e spesso alla sua morte senza l’uso delle armi

Questo metodo di combattimento si aggiungeva a quelli riguardanti le armi specifiche, tra cui il Ken Jutsu (l’arte della sciabola) che prese ad avere una parte predominante nell’addestramento dei Bushi e dei Samurai in partire dal X secolo.

Pur avendo come bagaglio tecnico il Kyuba no michi (l’arte del tiro con l’arco e dell’equitazione), i Ryusha nei vari Ryu avevano un addestramento specifico in qualche forma particolare di combattimento che veniva contraddistinto da varie denominazioni e traeva origine molto spesso dall’abilità del Soke in quello specifico stile.

Note


Taiji Kase: Il X dan Maestro karate Shotokan

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Taiji Kase è stato un Karateka e maestro di Karate giapponese

Fu uno dei maestri più preparati e più conosciuti nell’ambito del Karate, considerato come uno dei combattenti migliori ed esecutori di Kata grazie alla sua abilità tecnica, alla sua esplosiva velocità e alla sua potenza.

Nel 2000 gli fu conferito il grado di 10° Dan, a conferma del suo immenso valore

Inizia la pratica delle arti marziali a soli sei anni, il maestro Kase tuttavia, non inizia con la pratica del Karate, ma con lo judo, è all’età di quindici anni che inizia a praticare il Karate alla scuola Shotokan di Tokio.

È stato allievo diretto dei Maestri Gichin e Yoshitaka Funakoshi fa la sua comparsa sulla scena Europea nel 1965, inviato con altri giovani Maestri nel continente dalla Japan Karate Association e da quel momento, se si escludono i brevi periodi del soggiorno Belga, è sempre vissuto a Parigi.

In Europa viene subito apprezzato per le qualità sia umane che prettamente tecniche.

Ciò che sorprendeva in lui era l’atteggiamento pacato e la disponibilità che dimostrava in ogni occasione con i suoi allievi, sia che si trattasse di campioni di alto grado o semplici cinture nere.


Nasce il 9 febbraio 1929 a Chiba, in Giappone, e inizia la pratica delle arti marziali a soli sei anni. Il maestro Kase tuttavia, non inizia con la pratica del Karate, ma con lo Jūdō.

È all’età di quindici anni che inizia a praticare il Karate alla scuola Shotokan di Tokyo. È stato allievo diretto dei maestri Gichin e Yoshitaka Funakoshi.

Il maestro Kase fa la sua comparsa sulla scena europea nel 1965.

Fu inviato con altri giovani maestri nel continente dalla Japan Karate Association. Da quel momento, se si escludono i brevi periodi del soggiorno belga, è sempre vissuto a Parigi.

In Europa viene subito apprezzato per le qualità sia umane che prettamente tecniche

Ciò che sorprendeva in lui era l’atteggiamento pacato e la disponibilità che dimostrava in ogni occasione con i suoi allievi. Sia che si trattasse di campioni di alto grado o “semplici” cinture nere.

La caratteristica principale del suo insegnamento è quella di separare completamente la pratica sportiva dal Karate-dō.

Il Karate-dō è una via, un percorso di formazione e crescita che il maestro Kase intendeva insegnare secondo i precetti del suo maestro e fondatore del Karate Gichin Funakoshi. Era l’incarnazione dello spirito del Karate-dō al quale ha dedicato tutta la sua vita e tutto sé stesso.

Nel 1989 fonda la W.K.S.A. (World Karate Shotokan Academy) oggi S.R.K.H.I.A. (Shotokan Ryu Kase Ha Instructor Academy), l’Accademia che si propone di unire praticanti di diversi paesi che seguendo il suo programma di insegnamento si impegnano a diffondere la vera essenza del Karate-dō Shotokan.

Era di casa anche in Italia, invitato spesso dal maestro Hiroshi Shirai per condurre al suo fianco stage e seminari.

Tutti gli appassionati ricordano le dimostrazioni dei grandi maestri giapponesi al Palalido di Milano, nelle quali il Maestro Taiji Kase era sempre fra le più acclamate punte di diamante.

Durante la permanenza in Francia, ha scritto vari libri sulle arti marziali, tra i quali 5 Heian:

  • Katas, Karaté, Shotokan (1974);
  • 18 kata supérieurs: Karate-dô Shôtôkan Ryû (1982);
  • Karaté-dô kata: 5-Heian, 2-Tekki (1983).

Per i suoi atleti è l’espressione più alta del Karate Tradizionale

Sono la rettitudine del suo comportamento, la sua lealtà e la profonda umanità che erano proprie di questo grande Sensei che lo fanno apprezzare da tutti i praticanti di Karate e non solo. Al di là dei diversi stili e delle singole federazioni.

Note


[STORIA CONTEMPORANEA] La MORTE di BRUCE LEE

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La morte di Bruce Lee è uno di quegli episodi capace di muovere la macchina che crea i miti, un episodio di caratura mondiale .

Fiumi di inchiostro sono stati consumati sulla questione, ma ancora oggi si sente ogni tipo di stupidità al riguardo.

Esistono tuttavia molti aspetti che sono rimasti oscuri e che oggi dopo una valida ricerca voglio chiarire attraverso questo articolo che per il suo contenuto offre a chi legge la chiara sequenza di avvenimenti che riguardano la sua morte.

In definitiva  questo è il risultato di un lavoro giornalistico impressionante di un famoso esperto in materia: il Maestro Pedro Conde, ma andiamo ai fatti.

Negli studi di doppiaggio di Hammer Hill, Kowloon (Hong Kong), si lavora sulla sonorizzazione degli ultimi rulli del film “Operazione Drago“.

L’edificio somiglia più ad un granaio che ad uno studio di registrazione, la giornata è calda, il lavoro pesante, si è scollegata l’aria condizionata per evitare i rumori di fondo.

Lo studio è, virtualmente una sauna, tutto il team è esausto e di cattivo umore per dover lavorare in condizioni simili.

I nervi sono a fior di pelle, Bruce Lee risente della fatica dei mesi precedenti, in una pausa va in bagno per rinfrescarsi, una volta lì sente un fortissimo dolore alla testa, cade a terra, ma non perde conoscenza.

Quando era a terra ho sentito dei passi, non volevo preoccupare nessuno, ho finto, ho iniziato a tastare  il pavimento come se stessi cercando qualcosa“ (commento di Bruce Lee alla moglie Linda poche ore dopo).

Si alza, sente di nuovo quel dolore pungente e cade a terra, questa volta perde completamente conoscenza

Immediatamente comincia a vomitare e ad avere convulsioni, il tecnico del suono dello studio, signor Win, dichiara quanto segue :

”Abbiamo sentito grida provenire dal piano superiore, abbiamo visto qualcuno sdraiato vicino al water, era Bruce Lee . Lo abbiamo raccolto e portato nella sala di doppiaggio, dove lo abbiamo disteso su un divano, gli tremava la bocca come se avesse un attacco di epilessia”

Un operatore corre per i corridoi fino all’ufficio di Raimond Chow, il socio di Bruce Lee. Questi manda a chiamare un medico e si dirige precipitosamente nello studio di incisione.

Bruce Lee mostrava difficoltà respiratorie ed emetteva un suono rauco dalla gola nel momento stesso in cui aveva le convulsioni”.( R. Chow).

Trasportato Bruce Lee al vicino ospedale Battista, Linda Lee si presenta alla clinica dopo pochi minuti, sono avvertiti altri tre medici, tra essi il dottor Peter Woo, in clinica Bruce Lee continua a soffrire di accessi convulsivi alternati a periodi di calma. Suda copiosamente e sembra che ogni respiro sia l’ultimo.

Gli occhi rimangono aperti ma fuori fuoco.

Poco prima delle cinque chiamarono dalla Golden Harvest portarono qualcuno dello studio che si era sentito male, apparentemente aveva qualcosa a che vedere con Bruce Lee, quando arrivarono vidi che si trattava proprio di Bruce Lee, sembrava molto grave. La sua respirazione era molto irregolare, sudava moltissimo, la sua pelle aveva un colore cadaverico, gli occhi rimanevano aperti ma fuori fuoco. Sembrava letteralmente morto” (Dott. Langford )

Per la sua grande forza fisica è quasi impossibile trattenerlo durante le convulsioni

Il personale medico si preparò per eseguire una tracheotomia, nel caso smettesse di respirare, la sua grande forza fisica rende difficile il lavoro, dal momento che è quasi impossibile trattenerlo durante le convulsioni.

Bruce continua a non reagire, il neurochirurgo nota qualcosa di strano: il cranio è troppo voluminoso.

Gli fu somministrato del Mannitolo per ridurre il gonfiore del cervello, man mano che lo facevamo, il suo stato cominciò a migliorare

Dott. Langford

Prepararono la sala operatoria nel caso il Mannitolo non faccia effetto, ma le convulsioni iniziano ad essere meno frequenti e violente, l’infiammazione si riduce nel giro di due ore  Bruce Lee  riprende i sensi.

All’inizio riusciva a muoversi poco, poi aprì gli occhi e fece dei segni, non riusciva a parlare, riconobbe sua moglie e le fece un sorriso, poco a poco recuperò la parola e, quando fu trasferito, scherzava e cominciava a ricordare quello che era successo

Dott. Langford

“Un’analisi del sangue aveva evidenziato un possibile mal funzionamento dei reni, appena potemmo muovere il paziente, lo trasferimmo all’Ospedale Santa Teresa, poiché dispone di impianti migliori.Io avevo intenzione di praticare un elettroencefalogramma e fare delle radiografie del sistema vascolare del cervello iniettandogli una sostanza radio opaca, ma il signor Lee non volle che gli facessimo questo controllo, preferì essere trasferito a Los Angeles per sottoporsi ad un approfondito esame medico

Dott. Peter Woo

Con il Dottor Woo, per la prima volta, viene alla luce il tema del consumo di cannabis da parte del Drago:

Ci disse che, mentre stava lavorando al doppiaggio aveva masticato delle foglie “hascisc” che gli avevano dato, dopo di ciò, ebbe le vertigini e iniziò ad avere nausea e a vomitare fino ad entrare in coma. Raccogliemmo un campione di quello che aveva vomitato e trovammo una quantità importante di hascisc, quindi la nostra diagnosi fu che aveva avuto un’overdose di tale sostanza o che era molto sensibile alla stessa o a qualcuno dei suoi componenti, dal momento che questa era la causa del problema che aveva avuto

Dott. Peter Woo

Secondo quanto racconta Linda, la moglie di Bruce Lee, dopo essersi ripreso Bruce Lee le dice

Mi sono sentito molto vicino alla morte… ma mi sono detto che l’avrei combattuta, ne sarei uscito, non mi sarei dato per vinto, sono sicuro che senza questa predisposizione sarei morto

Il dottor Rersbord diagnostica tale evento come: episodio convulsivo, del tipo più grave di epilessia, la cui causa è sconosciuta.

Una settimana dopo, Bruce Lee va a Los Angeles, un team di medici, guidato dal dottor David Rersbord, lo sottopone ad un’accurata esplorazione cerebrale e realizzano uno studio dei liquidi cerebrali senza trovare alcuna anomalia.

La diagnosi dei dottori fu che Bruce Lee aveva sofferto di un edema cerebrale

Questo Edema è caratterizzato da un’infiammazione anormale, dovuta all’infiltrazione di siero nella cavità cerebrale, sotto la pelle, che provoca alterazioni morfologiche e funzionali .

Può essere il risultato di un’ipertensione capillare, di un ostacolo nei (vasi) linfatici o di un aumento della permeabilità capillare.

Nel caso del “Piccolo Drago” non si trova niente di anormale nel suo organismo, anzi il dott. David Rersbord rimane sorpreso dal fisico di Bruce Lee.

A 33 anni ha un fisico e una vitalità paragonabile a quella di un ragazzo di 18 anni, i medici concludono che Bruce Lee aveva sofferto del “Grande Male“

L’epilessia è una malattia caratterizzata da crisi convulsive con perdita di conoscenza, allucinazioni sensoriali o turbe psichiche, che corrisponde allo scarico funzionale di un gruppo di cellule nervose del cervello.

Si manifesta in tre quadri clinici diversi: Grande Male, Piccolo Male ed Epilessia Parziale.

Il Grande Male è caratterizzato da crisi convulsive generalizzate insorte all’improvviso, senza preavviso. Il malato di solito, grida e cade, la crisi si sviluppa in tre fasi :

  • Fase tonica (il corpo si irrigidisce, gli occhi si socchiudono, si serrano le mandibole);
  • Fase clonica (violenti movimenti agitano il corpo e la testa in tutti i modi);
  • Fase risolutiva (coma profondo, che scompare in un quarto d’ora o meno), il malato non ricorda nulla.

Durante le crisi sono frequenti il morso alla lingua e l’incontinenza degli sfinteri, con la conseguente uscita di urina, per combattere questa malattia, il trattamento normale consiste nel prescrivere una droga che calma l’attività cerebrale.

Questo Edema è caratterizzato da un’infiammazione anormale, dovuta all’infiltrazione di siero nella cavità cerebrale, sotto la pelle, che provoca alterazioni morfologiche e funzionali .

Può essere il risultato di un’ipertensione capillare, di un ostacolo nei (vasi) linfatici o di un aumento della permeabilità capillare.

Nel caso del “ Piccolo Drago” non si trova niente di anormale nel suo organismo, anzi il dott. David Rersbord rimane sorpreso dal fisico di Bruce Lee.

A 33 anni ha un fisico e una vitalità paragonabile a quella di un ragazzo di 18 anni.


I medici concludono che Bruce Lee aveva sofferto del “Grande Male“ (Epilessia)

L’epilessia è una malattia caratterizzata da crisi convulsive con perdita di conoscenza, allucinazioni sensoriali o turbe psichiche, che corrisponde allo scarico funzionale di un gruppo di cellule nervose del cervello.

Si manifesta in tre quadri clinici diversi: Grande Male, Piccolo Male ed Epilessia Parziale. Il Grande Male è caratterizzato da crisi convulsive generalizzate insorte all’improvviso, senza preavviso. Il malato di solito, grida e cade, la crisi si sviluppa in tre fasi :

  • Fase tonica (il corpo si irrigidisce, gli occhi si socchiudono, si serrano le mandibole);
  • Fase clonica (violenti movimenti agitano il corpo e la testa in tutti i modi );
  • Fase risolutiva (coma profondo, che scompare in un quarto d’ora o meno), il malato non ricorda nulla.

Durante le crisi sono frequenti il morso alla lingua e l’incontinenza degli sfinteri, con la conseguente uscita di urina, per combattere questa malattia, il trattamento normale consiste nel prescrivere una droga che calma l’attività cerebrale.

È importante rilevare che nessuno dei suoi familiari soffrì mai di epilessia

A Bruce Lee fu prescritto Dilantino, è importante rilevare che nessuno dei suoi familiari soffrì mai di epilessia, neanche nella sua forma più benigna e nemmeno lui ne soffrì.

Attacchi simili a quelli provocati dall’epilessia possono essere causati dalla mancanza di zucchero o di ossigeno nel sangue, dall’uremia, da lesioni cerebrali che tardano a manifestarsi o da meningiti.

L’epilessia non mostra mai questi precedenti, semplicemente arriva e, anche se apparentemente è il risultato di qualcosa che va male nella chimica del cervello, non se ne conosce il motivo.

Dopo il controllo non si conoscono le cause di tale episodio clinico, alla fine di maggio la famiglia Lee ritorna ad Hong Kong, Bruce Lee torna a lavoro.

Il 20 luglio, alla 13,00 Linda deve andare a fare shopping, più tardi si accorda per mangiare con un’amica, dà un bacio a Bruce per salutarlo.

Questo le comunica che avrebbe dovuto vedersi con Raymond Chow per parlare del progetto del film “L’ultimo combattimento di Chen“ , le dice che probabilmente non sarebbe tornato per cena.

Raymond Chow venne a casa verso le 14,00 e lavorò con Bruce Lee fino alle 16,00, poi andarono a casa di Betty Ting Pei, che avrebbe avuto un ruolo importante nel film” (Linda Lee) .

Poi, i due  vanno a casa dell’attrice, poco tempo dopo Raymond Chow se ne va, alla sera hanno entrambi un appuntamento in un ristorante con l’attore Gorge Lazenby, secondo il portinaio dell’edificio di Betty Ting Pei, arrivano verso le 15:00 e Raymond Chow se ne sarebbe andato approssimativamente un’ora dopo.

Quando termina il suo turno, verso le 20:00, non vede uscire Bruce Lee

Secondo le dichiarazioni dell’attrice,  stavano parlando del film quando Bruce Lee comincia a sentirsi male, Betty Ting Pei gli offre Equagesic, un noto anegelsico che prendono migliaia di cinesi senza ricetta, qualcosa di simile all’aspirina in Occidente, e gli dice di distendersi un po’ sul letto.

Secondo una versione, verso le 21,30 Raymond Chow telefona dal ristorante, ma Betty Ting Pei gli dice che stava ancora dormendo, dopo un po Betty gli telefona dicendo che aveva tentato di svegliarlo e che gli sembrava privo di conoscenza. Chow decide di tornare all’appartamento, sono ancora recenti i fatti del 10 maggio, li trova Bruce Lee incosciente, quindi chiamano d’urgenza un dottore.

Esiste un’altra versione nel ristorante Chow riceve una chiamata da Betty Ting Pei che aveva tentato di svegliare Bruce Lee senza riuscirci, Chow, allarmato, si dirige all’appartamento dell’attrice.

In quel periodo Bruce e Betty si vedono molto spesso e già iniziavano a circolare certe voci di una possibile relazione tra di loro

Raymond Chow vuole evitare lo scandalo a ogni costo, quando arriva all’appartamento tenta di svegliare Bruce Lee, ma questi non reagisce, allora Betty chiama il dottor Eugene Chu, suo medico di famiglia.

Lo trovai sdraiato a letto, sembrava che stesse dormendo, gli feci una visita veloce, aveva le pupille molto dilatate, sembrava che il cuore non battesse, tentai di rianimarlo per almeno dieci minuti,vedendo che non reagiva, chiamai un’ambulanza. All’inizio non diedi importanza al  tempo che passava, non potevo immaginare una situazione così critica. Quando fu trasferito all’ospedale Regina Elisabetta, alle 22,30, i medici tentarono inutilmente di farlo uscire dal coma con ossigeno e massaggi cardiaci “ (Dott. Eugene Chu)

Raymond Chow chiama Linda Lee per comunicarle quello che è successo : ”mi allarmai immediatamente, erano ancora freschi nella mia memoria i fatti del 10 maggio“ . Subito si dirige direttamente all’ospedale, i due si incontrano nella sala d’attesa.

Alle 23,30 i medici danno loro la notizia: “È morto”

Pochi minuti dopo la notizia circola per le strade. Ancora oggi si mescolano diverse teorie, tutte di rimprovero verso le persone che furono con Bruce Lee nei suoi ultimi minuti di vita. Se Betty Ting Pei  avesse chiamato direttamente il dottore, forse sarebbe ancora vivo, il dottore Eugene Chu mandò l’attore al migliore ospedale, ma non al più vicino, si perse tempo prezioso .

Il fatto è che Bruce Lee morì e non ha importanza “quello che poteva essere fatto,ma non si fece“, quello che è successo è passato e non esiste la possibilità di cambiarlo.

Il Re delle Arti Marziali è morto

La notizia si accese come un rigoletto di polvere da sparo, “Il re delle Arti Marziali è morto“ Bruce Lee aveva cambiato l’immagine del popolo cinese nel mondo, era una celebrità in tutto il sud-est asiatico, quindi non fu strano che suscitasse tante aspettative tra i giornalisti  e che tutti tentassero di ricavare più informazioni possibili.

Note


[STORIA ANTICA] L’arte del combattimento: un cenno di storia

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Gladiatura e gladiatori: l’arena dell’arte.

  “D. Iunius Brutus munus gladiatorium in honorem defuncti patris primus edit“

Munus è il termine latino che, come scrive Tertulliano nel suo trattato sugli spettacoli: “È stato chiamato munus dall’impegno, che ha il medesimo nome con questo spettacolo gli antichi ritenevano di assolvere un obbligo nei confronti dei defunti“ ed è forse il nome con quale origine vennero indicati in origine i primi eventi aperti al pubblico, che divennero in seguito un vero e proprio fenomeno gladiatorio.

Le recenti scoperte archeologiche (tombe di Paestum) hanno permesso di collocare l’origine funeraria degli spettacoli gladiatori in una situazione storica/geografica attribuibile ad area “osco-sannitica“ anche se ancora non è chiaro se i romani importarono i giochi dalla Campania oppure dai contatti con gli Etruschi.

La collocazione in ambito funerario e celebrativo degli spettacoli a Roma è praticamente certa fin dal loro inizio, dallo storico Tito Livio apprendiamo infatti che nel 264 a.C.

Durante il consolato di Appio Claudio e Quinto Fulvio, gladiatori Etruschi dettero vita a combattimenti per le cerimonie sacre dei funerali di Decimo Giunio, come è riportato in questo passo di Valerio Massimo: “gladiatorum munus primum Romae datum est in foro Boario, App. Claudio, Q. Fulvio consulibus, daederunt Marcus et Decimus, fili Bruti Perae, funebri memoria patris cineris honorando“ .

Diverse iscrizioni epigrafiche confermano il legame, almeno iniziale, tra i giochi e le solenni cerimonie funerarie, una testimonianza la troviamo nelle epistole del II secolo di Plinio il giovane che commenta le onoranze funebri di un notabile veronese fatte in onore della moglie defunta: “Cuius (uxsoris) memoriae aut opus aliquod aut spectaculum atque hoc potissimum, quod maxime funeri debebatur“

Non sfugge certo la nemesi mediterranea di queste attività che ritroviamo nel mondo greco ed etrusco e che univano gli aspetti ludico/guerrieri e celebrazioni votive/sacrali, il progressivo distacco da questa iniziale condizione sacrale verso le forme di spettacolo pubblico (gladiatoria) sarà raccontato da alcuni cronisti come un fenomeno di tipo esclusivamente idolatrico.

Tertulliano, quattrocento anni dopo l’avvento dei munera a Roma, paragona i giochi di gladiatura ad omicidi e sottolinea come questi spettacoli non siano per i cristiani, teorizzando addirittura che si trattasse di sacrifici umani.

Malgrado le degenerazioni degli spettacoli dei gladiatori operate da alcuni imperatori (ad esempio Commodoro figliastro di Marco Aurelio) e le invettive di Tertulliano, i giochi non si fermarono, l’imperatore Traiano allestì uno spettacolo gladiatorio imponente durante il quale scesero nell’arena del Colosseo più di 10.000 gladiatori.

Niente era lasciato al caso, l’organizzazione era precisa e suddivisa per competenze

La parte amministrativa era affidata al personale “ratio a muneribus“, mentre i macchinari, i congegni e la coreografia dei giochi era competenza dei “ratio summi choragi“, dei costumi dei gladiatori e dei partecipanti erano incaricati gli “a veste gladiatoria venatoria“  e le caserme/scuole erano controllate dai “Procuratores familiarum gladiatoriarum“.

Tutto questo e l’enorme interesse popolare, fece dei giochi un potente strumento politico sociale ed economico, circolavano cifre enormi per la gestione dei giochi e spesso i sesterzi si sprecavano, la Gladiatura fu certamente l’aspetto più caratterizzante della visione marziale/sportiva durante l’impero romano, la figura dei “Procuratores familiarum gladiatoriarum“ è forse quella che meglio può far comprendere il fenomeno e l’estensione di quella che per molti era una vera e propria professione: il gladiatore.

Procuratores familiarum gladiatoriarum erano una vera e propria corporazione che controllava su mandato imperiale le numerose caserme sparse su buona parte dell’impero, la storia marziale europea deve molto a questa straordinaria diffusione della Gladiatura e caserme gladiatorie si trovano persino nei territori orientali.

Ma chi era il gladiatore?

Il gladiatore era quasi sempre un combattente professionista (gladiu, gladius,gladiatura), ma di là di questo non certo una figura definibile per semplice classe sociale, la condizione di molti era quella di prigionieri di guerra, altri invece erano schiavi, altri ancora potevano essere forzati alla scuola di combattimento e al circo in seguito ad una condanna.

Ma alla condizione sventurata dei primi si affiancava quella del tutto opposta che vedeva nelle file dei gladiatori i liberti (schiavi liberati) e diversi uomini liberi e di condizione e rango elevato come senatori e cavalieri, si hanno infatti notizie epigrafiche addirittura di un divieto scaturito da un senatoconsulto del 19 secolo d.C.

Dove si reiterava appunto ai senatori ed ai cavalieri un divieto a partecipare a tali attività, divieto emanato già nell’11 secolo d.C. Al quale sembra pochi si adeguarono, i gladiatori avevano un impresario, il lanista, che li raggruppava in gruppi detti familiae in un numero stabilito da norme precise.

I gladiatori non venivano mandati allo sbaraglio, ma apprendevano l’arte di combattere con le armi e disarmati in vere e proprie scuole.

Le leggi che regolavano l’istituzione delle familiae, dopo sanguinose rivolte la più famosa delle quali avvenne a Capua nel 73 a.C. comandata dallo schiavo gladiatore Spartaco, erano severe e fissavano un numero massimo di gladiatori per “compagnia“, i gladiatori non venivano mandati allo sbaraglio, come successe invece nelle degenerazioni in cui schiavi e cristiani erano messi a combattere con le belve fatte arrivare dalle province dell’ Africa, ma apprendevano l’arte di combattere con le armi e disarmati in vere e proprie scuole.

Nelle scuole di Gladiatura, l’Insegnante Magistro o Doctores secondo alcuni studiosi, si occupava della formazione tecnica delle singole specialità dette armaturae o nelle discipline minori quelle che potevano essere apprese per un uso polivalente non specialistico.

L’insegnamento era basato su istruzioni codificate, i dictata, veri e propri programmi tecnici e, secondo gli studiosi:

è probabile che esistessero anche dictata scritti, veri e propri trattati simili a quello che un fortunato ritrovamento ci ha messo a disposizione per la lotta del II secolo d.C.“

Il fenomeno della Gladiatura fu un aspetto importante della società romana che aveva fondato il prestigio e il potere sul culto della politica e della marzialità, della disciplina, delle armi e delle oratorie

I giochi furono insieme il contenitore per lo sfogo di pulsioni popolari, il terreno sempre fertile per mantenere una mentalità guerriera ed infine un modo per fare politica di consensi.

La Gladiatura e le sue vicende precede quello che più tardi saranno quei fenomeni collettivi che prenderanno a seconda dei contesti e delle classi sociali coinvolte, nomi diversi dai tornei, agli armeggiamenti, alle giostre, alle battagliole, oggi, se pensiamo credere di aver superato il passato o di avere, alla luce delle maggiori conquiste sociali e democratiche, sradicato ogni punto di contatto con queste forme e formule di società battagliera, e poi guardiamo il campo di calcio con le fazioni che si dividono e si contrappongono innalzando stendardi e bandiere ritualizzando in gesti e cori l’antico furor di confronto e della pugna.

Note


[CULTURA ORIENTALE] La filosofia del Ki (氣)

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Comincia così l’autentico cammino verso la trasformazione: l’osservazione senza giudizio delle azioni o dei pensieri positivi o negativi.

Qui si trova la chiave per la quale il desiderio non si trasforma in sofferenza, ed è la ragione più nobile per praticare le arti marziali o qualunque altra attività.

Nel cammino cosciente non dare importanza a ciò che ti succede (bene,male,positivo o negativo), limitati ad osservare il pensiero o l’avvenimento che sta succedendo e a sentire l’emozione che produce nel tuo corpo.

Un’emozione che è la reazione del corpo ad un pensiero ed una finestra per sentire il KI.

Affacciati, senza giudicare. Osserva semplicemente ed in quello stesso istante avrai iniziato il processo di trasformazione verso una nuova coscienza spirituale, in quel “qui ed adesso”.

Questo significa essere presente.

La ripetizione della cosiddetta “osservazione senza giudizio” col tempo finisce per trasformare una persona, permettendole di entrare tranquillamente in un mondo in armonia nel quale può portare a termine qualunque attività fisica o mentale, anche di grande intensità, ma sempre in armonia col presente, il qui e adesso che è l’unica cosa che merita importanza.

Questo è il cuore delle arti marziali o di qualunque altra attività: la capacità di trasformare l’essere umano rendendolo cosciente che il passato, il futuro ed il pensiero parassita sono le pesanti remore che ci impediscono di vivere nel presente, che è l’unica cosa che realmente viviamo.

Per fare un esempio è nel presente che deve manifestarsi l’amore, non nel passato o nel futuro che sono solo illusioni. Questo significa vivere in armonia.

Tutti conosciamo quegli anziani Maestri che c’impressionano per il KI che irradiano, al solo parlar con loro o stare alla loro presenza senza parlare, si avverte un alone di calore che ristora lo spirito, si “sente” ma non si sa cosa sia, né si è in grado di misurarlo, il che rende questa esperienza qualcosa di inquietante.

Sentono, non cercano, semplicemente ci sono

È ammirabile e desideriamo raggiungere quel grado di essere, ma l’obiettivo ci sembra impossibile da raggiungere e sfortunatamente i mezzi che usiamo finiscono per sembrare ginnastica aerobica o procedimenti di autosuggestione.

La motivazione e la ricerca sono due forme di KI allo stato primordiale, che possono interagire senza creare ego.

Il cammino è lungo, ma solo attraverso la conoscenza di noi stessi possiamo finalmente trovarlo, il KI!

Come può essere allenato il KI? È una domanda alquanto delicata. Quando qualcuno me lo ha chiesto, la mia risposta è stata “non si allena, lo si trova”. Approfondiamo l’argomento dell’articolo precedente.

Sembra però che durante il cammino molti si perdano e non trovino il modo di giungere a sentirlo, tanto meno a materializzarlo.

Non si possono fornire ricette per trovarlo o che garantiscano un sicuro successo, non si può giungere alla coscienza del KI neppure attraverso un cammino di forza o un allenamento estenuante, per questa via si arriva all’arroganza e alla fantasia dell’Ego.

Entrare attraverso la porta delle emozioni, che sono il riflesso fisico dei pensieri e non per intricati ed impervi luoghi della tecnica, è il modo migliore.

Osservare ogni azione realizzata e soprattutto non giudicare se stessi, né gli altri, è una buona via per cominciare a sentire la sottile energia che attraversa il corpo, il KI.

Questo è un cammino di sensibilità che ci arricchisce come persone e pertanto ha un gran potere di trasformazione.

La ricerca del KI avviene nel momento in cui siamo chiaramente coscienti di voler cercare qualcosa di non visibile che ci interessa e che racchiude un mistero, tutto ciò fa sì che questa esplorazione sia molto attraente.

Desideriamo trovare qualcosa che è nascosto dentro di noi, ciò che ci ha animati per tutta la vita e che alla fine essa continuerà fino all’infinito, ed è proprio qui che iniziano i problemi, perché il KI è un concetto astratto che non può essere misurato. È un’impressione, è sottile.

Non esiste nessuna macchina che possa dire “lei ha 15 unità di KI”, forse potrebbe manifestarsi attraverso qualche tipo di forza esteriore, ma questa non sarebbe altro che un semplice aneddoto, sarebbe come paragonare un riflesso di luce con l’energia emanata dal sole.

Il Desiderio, affermava Buddha, è la fonte di ogni sofferenza

Questa è una grande verità, tutto ciò che l’essere umano ha generato fin dagli albori, è stato spinto da una forma di energia chiamata “Desiderio”. Se non si riesce ad ottenere quanto desiderato, compare la frustrazione. Da questo stato mentale si passa poi ai pensieri errati che fanno perdere l’orizzonte di ciò che stavamo cercando all’inizio.

Ci perdiamo quindi in un mare di frustrazione che, sfortunatamente, finisce col trasformarsi in una molteplicità di nuove forme di pensiero che si alimentano da sole senza tregua ed indefinitamente. Il desiderio ed il maggior desiderio conducono alla distruzione di ciò che si stava cercando inizialmente. Questa avidità finisce facilmente col trasformarsi in violenza, le notizie d’attualità lo confermano quotidianamente.

Quindi, come trovare quel “qualcosa” che nelle arti marziali si chiama KI, senza che intervenga il desiderio, la frustrazione e perfino la violenza? La risposta si trova nella frase “Io sono quando io comprendo”.

Qui si esprime il profondo senso dell’Essere e del Stare. Quando io “Io Sono”, penetrò nell’oceano dell’Essere e “quando comprendo” mi trovo nel qui e adesso, che è l’unica cosa che esiste e che pertanto ci permette di relazionarci con il mondo fisico.

Nella frase “Io Sono quando io comprendo”, che non ha una forma, il desiderio non si attiva e senza una forma fisica o mentale non può esserci desiderio, se durante pratica delle arti marziali ci alleniamo senza desiderio e siamo mossi solo dal “desiderio” di comprendere, allora le vere pietre d’inciampo del cammino che si manifestano sotto, forma di arroganza, gelosia, violenza, vanità ecc… vengono usati come oggetti di meditazione.

Note


Harakiri (腹切り): Da Konishi Yukinaga all’Incidente di Kobe

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Harakiri. Non tutti però avevano tale coraggio

Nella disfatta di un esercito per esempio, il comandante Ispida Mitsunari fu fatto prigioniero, ma non lo ritenne un’infamia intollerabile, disse agli uomini che avrebbe potuto uccidersi da solo, ma pensava fosse meglio lasciare il disturbo ai propri nemici.

Un altro importante prigioniero fu Konishi Yukinaga, il generale cristiano divenuto famoso durante la guerra di Corea.

Catturato, gli venne imposto di suicidarsi, ma rifiutò sostenendo che la sua fede cristiana lo considerava un peccato. In seguito venne decapitato sulle rive del fiume Kamo.

Un esempio ben documentato di Harakiri: L’incidente di Kobe

Esiste un classico resoconto di un seppuku, scritto da A.B. Mitford rappresentante della delegazione britannica.

L’avvenimento ebbe luogo alla fine del periodo feudale, in una notte del 1868, in un tempio presso Kobe.

Protagonista un Samurai di nome Taki Zenzaburo, reo di aver ordinato ai suoi uomini di far fuoco sulla colonna straniera di Kobe, con mano ferma prese il pugnale che gli stava dinnanzi e lo fissò intensamente, quasi con affetto.

Restò assorto per un momento, poi se lo conficcò in profondità al di sotto della cintura nella parte sinistra, lentamente lo portò a destra, poi lo rigirò nella ferita e lo trasse verso l’alto.

Durante questa tremenda operazione non in un muscolo della sua faccia si mosse, estrasse il pugnale e si abbandonò in avanti reclinando il collo.

A questo punto il kaishaku, che era rimasto accoccolato al suo fianco spiando attentamente ogni sua mossa, balzò in piedi brandendo alta la katana.

Un lampo, un tonfo sinistro, e con un solo colpo la testa rotolò via dal corpo.


Conclusioni

I tempi cambiano, ma chi ha innata la cultura e il senso dell’onore ancora oggi effettua il suicidio l’Harakiri.

Le motivazioni sono diverse, (vedi quel direttore di banca che aveva truffato i clienti) ma il risultato è lo stesso.

Harakiri anche senza il proprio kaishaku, il giappone una tradizione, una popolazione, un solo onore.

In Italia se ci fosse lo stesso principio dell’onore con relativo Harakiri, troveremmo tantissimi kaishaku e nessun candidato al Harakiri. Di questo ne sono più che convinto!

Note


[SEPPUKU] Cosa è lo Harakiri (腹切り)?

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Per quanto strano possa sembrare, nessuno è in grado di precisare le origini del seppuku; questa forma atroce di suicidio.

Ma il seppuku (lettura più colta dei due ideogrammi di harakiri, “ventre – taglio“) divenne col tempo il modo di morire in quattro situazioni diverse.

Era l’ultimo rifugio per evitare un’indicibile disgrazia come quella di cadere nelle mani del nemico.

Poteva essere effettuato come JUNSHI, suicidio alla morte del proprio signore, oppure essere l’ultima risorsa per contestare un superiore di cui non si approvava il comportamento. Infine poteva essere la sentenza capitale imposta a un guerriero dalle autorità.

Lo HARAKIRI, detto anche seppuku, era naturalmente prerogativa della classe samuraica

A monaci, contadini, artigiani e mercanti non era concesso darsi questo tipo di morte.

Un nobile della corte di Kyoto, ad esempio, avrebbe preso il veleno, ciò sta a significare che lo harakiri fu scelto perché principalmente era la dimostrazione di un coraggio quasi sovrumano, qualità che insieme alla lealtà era la somma, indispensabile virtù del Samurai.

Per usare le parole di uno storico:

la scelta di tale estrema sofferenza fu senza dubbio correlata all’idea che era obbligatorio per i membri dell’elitaria classe marziale mostrare il proprio eccezionale coraggio e la propria determinazione nell’affrontare una prova così atroce che la gente comune non poteva affatto sopportare

Bisogna anche tener presente che il ventre (hara) in Giappone era considerato il centro dell’uomo, dove risiedevano il suo spirito, la sua volontà, le sue emozioni.

Chi si apprestava a fare il harakiri doveva essere pronto a esporre questa sede per dimostrare la propria sincerità. Un brano da Sole e acciaio di Mishima ci fornisce una spiegazione alquanto singolare di questa specifica concessione:

Prendiamo una mela, una mela intatta, l’interno della mela è naturalmente invisibile, così all’interno di questa mela, rinchiuso nella polpa del frutto, il torsolo si nasconde nella sua livida oscurità, tremante nell’ansiosa ricerca di sapere se è una mela perfetta.

È certo che la mela esiste, ma per il torsolo questa esistenza è ancora insufficiente, se le parole non possono confermarla, allora l’unico mezzo per farlo sono gli occhi.

In realtà per il torsolo la sola sicurezza di esistere è esistere e vedere allo stesso tempo, c’è un solo modo per risolvere questa contraddizione: conficcare un coltello ben dentro la mela, spaccarla ed esporre il torsolo alla luce, a quella stessa luce che vedeva la buccia.

Yukio Mishima, Sole e acciaio (titolo originale 太陽と鉄
Taiyō to tetsu)

Ma l’esistenza della mela finisce a pezzi, il torsolo sacrifica l’esistenza per vedere.

Col tempo si realizzò che la morte per seppuku era non solo coraggiosa, ma anche “bella“

Era considerata un’onorevole e quindi esteticamente soddisfacente fine per una vita, per quanto breve, di leale servizio.

Sin dall’inizio del Xlll secolo almeno, il seppuku come pratica comune divenne talmente parte della tradizione Samuraica, che al figlio di un guerriero gli venivano impartite già nell’infanzia istruzioni al riguardo.

In epoca posteriore il Seppuku divenne una cerimonia rituale, specie quando a un samurai veniva imposto (o dal Governo o dal suo signore feudale) il suicidio.

Già verso la fine del XVll secolo erano state codificate regole molto complicate, come il numero di tatami da usare e la loro disposizione.

I tatami erano stuoie di giunchi di circa un metro per due, usate per coprire i pavimenti delle case.

Dovevano essere bordati di bianco e su questi veniva posto un grande cuscino sul quale il guerriero che doveva fare seppuku si poneva in atteggiamento formale.

Inginocchiato e seduto eretto sui talloni, circa un metro dietro di lui alla sua sinistra, stava inginocchiato il kaishakunin, l’assistente al seppuku. Egli era un amico intimo del protagonista, che brandiva la spada nelle due mani e il suo compito era di decapitare l’amico nel momento concordato insieme prima della cerimonia.

Così a meno che non gli fosse ordinato diversamente, il kaishakunin cercava di cogliere il minimo accenno di sofferenza o di incertezza, pronto a decapitare il condannato appena questi si conficcava il pugnale nel ventre dopo averlo preso dal vassoio che gli stava di fronte.

Si dice che sovente la decapitazione avesse luogo appena il pugnale era tolto dal vassoio o addirittura al solo stendersi della mano verso di esso.

I coraggiosi che riuscivano a portarlo a termine, si tagliavano da sinistra a destra e quindi volgevano la lama verso l’alto, questa tecnica era conosciuta come jumonji, taglio traverso, poi interveniva il kaishakunin.

Note

Bibliografia

  • Yukio Mishima, Sole e acciaio (titolo originale 太陽と鉄
    Taiyō to tetsu) tradotto da Lydia Origlia, Prosa contemporanea, Guanda, 1982  ISBN 8877462159.

[PILLOLE DI STORIA] Domenico Alberto Azuni, l’illustre giurista

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Giurista insigne, gettò le basi del moderno diritto internazionale marittimo. Nacque a Sassari nel 1749 da famiglia medio borghese.

Laureatosi nel 1772 in leggi, dopo due anni di pratica legale, nel 1774 lasciò Sassari alla volta di Torino. Qui esercitò la pratica forense e, nel 1777, divenne pubblico funzionario dell’ufficio generale delle regie finanze.

Inviato a Nizza come giudice del consolato del commercio e del mare, ebbe modo di dimostrare la propria competenza e iniziò a pubblicare il Dizionario universale ragionato di giurisprudenza mercantile, in quattro volumi (1786-1788).

Quest’opera era il risultato di una ricerca sistematica di leggi e consuetudini delle città europee e si imponeva per le concezioni ampie e innovative, che raccordavano cambio, traffici ed attività marinare attraverso norme internazionali.

Per il giurista sardo i riconoscimenti non si fecero attendere

Vittorio Amedeo III conferì all’Azuni il titolo e i privilegi di senatore (1789) e lo incaricò di redigere il piano per il codice della marina mercantile degli Stati Sardi (1791).

Occupata Nizza dai francesi nel 1792, lo studioso fu costretto ad abbandonare la città ed a rifugiarsi a Torino. Iniziò un periodo difficile, segnato dalle invidie per la sua rapida e brillante carriera, che lo portò a trasferirsi a Firenze.

Chiese di tornare in Sardegna con un impiego ufficiale, ma anche questo, per volere degli stamenti sardi, gli fu negato. Seguirono privazioni e altri trasferimenti a Modena, Trieste e Venezia.

Nonostante le difficoltà, l’Azuni continuò a studiare, giungendo a pubblicare nel 1796 Sistema universale dei principi del diritto marittimo d’Europa, opera importantissima che gli valse la cittadinanza onoraria della città di Pisa (1796) e l’incarico da parte di Napoleone di redigere con altri giuristi il nuovo codice marittimo e commerciale francese (1801).

Negli anni 1799-1802 ebbe anche modo di dedicare alla Sardegna, sempre amata nonostante il rifiuto patito, le opere Essai sur l’histoire géographique, politique te naturelle du royaume de Sardaigne e Histoire géographique, politique et naturelle de la Sardaigne.

Queste opere mettevano in evidenza la centralità strategica dell’isola nel Mediterraneo e ne analizzavano le problematiche economiche in un’ottica straordinariamente moderna.

Pubblicò Droit Maritime de l’Europe nel 1805 e Origine et progrès de la législation maritime nel 1810, anno in cui fu anche nominato da Bonaparte cavaliere dell’Impero.

Gli ultimi anni

Con la successiva caduta di Napoleone, di cui era ritenuto un sostenitore, l’Azuni fu esonerato da ogni incarico. Come conseguenza si ritrovò a vivere nella sua casa di Genova in un’umiliante indigenza.

Nel 1818 il giurista Azuni entrò nella Reale Società Agraria ed Economica cittadina

Nel 1818, per l’intervento di influenti personaggi vicini al re Vittorio Emanuele I, fu nominato giudice del Supremo Magistrato del Consolato di Cagliari. Entrò infine a far parte della Reale Società Agraria ed Economica cittadina.

Dal 1820 alla pensione, avvenuta nel 1825, fu presidente della biblioteca universitaria di Cagliari: ruolo che svolse con particolare passione, rilanciando l’istituzione.

Morì nel 1827 lasciando i suoi beni ad una giovane donna, Maria Carpi, che l’aveva assistito fino alla fine con l’affetto di una figlia. Fu sepolto, come egli espressamente indicò, nella chiesa di Bonaria.

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