Mar. Giu 17th, 2025

Folklore

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[STORIA ANTICA] Vercingetorige, nemico pubblico dei romani

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In Francia è un eroe Nazionale, per i romani, e per Cesare in particolare, era il nemico pubblico numero uno

Oggi vorrei parlare di Vercingetorige, un altro combattente e della sua storia.

Il capo carismatico che riuscì ad unire le bellicose tribù galliche

Per conquistare la Spagna, Roma impiegò secoli. Per la Giudea invece, quasi 200 anni.

La Germania non l’ha mai conquistata, la Dacia nei Balcani le perse in poco tempo. La Gallia invece, cadde in soli otto anni, quelli del proconsolato di Giulio Cesare, a metà del l secolo a. C.

Dopo allora, l’Impero non dovette più fronteggiare alcun ritorno del nazionalismo gallico

La regione che poi sarebbe diventata la Francia (ed in parte anche il Belgio e gli attuali Paesi Bassi) si sarebbe integrata perfettamente con usi e costumi romani.

Eppure quegli otto anni furono lunghissimi per gli abitanti di quei territori, determinati a rifiutare il dominio romano, resistettero finché Cesare ci diede letteralmente,un taglio, facendo amputare le mani ai difensori di un villaggio gallico di irriducibili: Fu il caso di Uxelludunum, roccaforte dei galli cadurci sul fiume Dordogna.

A quel tempo la grande ribellione del 52 a. C. era già stata archiviata ad Alesia e il suo leader languiva in catene in attesa di essere esibito nel trionfo dal conquistatore.

L’epopea di Vercingetorige era durata lo spazio di pochi mesi, ma quel nome era già simbolo della resistenza all’imperialismo romano.

Prima di Vercingetorige la Gallia non era mai stata unita e le singole tribù erano perennemente in contrasto tra loro. Ma non solo, alcune, come gli edui, si erano addirittura alleate con i romani.

Altre Tribù erano già sotto il dominio di Roma (come quelle della provincia Narbonense, nelle attuali Linguadoca e Provenza), altre erano state assoggettate dai germani suebi o travolte da imponenti migrazioni, come quella degli Elvezi che Cesare arginò con le sue legioni.

E se Vercingetorige fu il primo a dare unità ai Galli, si dovranno aspettare i franchi di Clodoveo cinque secoli dopo e la dinastia merovingia per vedere la futura Francia unita sotto un’unica corona.


La regione che i romani chiamarono Gallia aveva dunque fatto della frammentarietà il suo tratto distintivo

Ma i popoli che l’abitavano avevano molti tratti comuni a cominciare dalla religione druidica, la quale aveva il suo centro nella Foresta dei carnuti vicino ad Orléans.

Qui, ogni sesto giorno dopo il solstizio d’inverno, si celebrava la raccolta del vischio.

I Druidi erano la classe dirigente, sacerdoti ma anche giudici, insegnanti e guaritori, ritenuti dai loro connazionali depositari di poteri soprannaturali, come predire il futuro e trasformarsi in animali.

Ogni nazione gallica aveva un re o una ristretta oligarchia al vertice della gerarchia politica, una cerchia di nobili guerrieri e la popolazione composta in gran maggioranza da contadini.

Come Arminio, l’eroe della resistenza germanica che fermò i romani nella battaglia di Teutoburgo nel 9 d. C., anche Vercingetorige aveva militato nell’esercito romano come ausiliario. Un cronista dell’epoca, Cassio Dione (III secolo d. C.), si spinse a dire che era amico personale di Cesare.

A partire da questo indizio c’è chi ha supposto che il capo gallico fosse addirittura un agente del Proconsole, che lo avrebbe incaricato di scatenare la rivolta per permettergli di consolidare il proprio potere.

Poco prima che Vercingetorige (ovvero “Grande re degli eroi”) emergesse dalle nebbie della storia, Cesare aveva già sedato la rivolta di Ambiorige, il leader più prestigioso che i galli avessero avuto fino a quel momento.

Il proconsole poteva ragionevolmente supporre di aver portato a termine il compito di pacificare la Gallia, dopo sei anni di lotte ininterrotte.

Capi giustiziati o esiliati, presidi legionari ovunque, territori talmente devastati che, a detta dello stesso Cesare, nessuno sarebbe stato in grado di sopravvivervi, erano il segno di un dominio imposto col ferro e col fuoco, tanto da aver spinto alcuni storici moderni a parlare di genocidio, invece il peggio doveva ancora venire.

Cominciò tutto a Cenabum, dove in pieno inverno la tribù locale dei carnuti compì un massacro di funzionari e commercianti romani.

L’azione, probabilmente decisa durante la cerimonia della raccolta del vischio e dunque “benedetta” dai druidi, riaccese ovunque il nazionalismo gallico.

Ci furono sollevazioni in serie, alle quali mancava solo una guida comune per sfociare in una rivolta generale.

L’uomo che aspettavano i galli si trovava tra gli Arverni, uno dei popoli più potenti della Gallia

Stanziato nella regione dell’Auvergne (Francia Centrale) gli Arverni, si narrava secoli prima, avevano partecipato all’invasione dell’Italia, poi infine si erano spartiti il dominio della Gallia stessa con gli Edui.

Sempre un re degli Arverni, Luernio, sfoggiava la sua ricchezza percorrendo le strade sul cocchio e gettando manciate di oro e d’argento, mentre un altro, Bituino, era stato deposto dai romani nel 121 a.C.

Il padre di Vercingetorige, Celtillo, aveva esteso il proprio potere a tal punto che i suoi stessi connazionali-rivali per fermarlo lo avevano giustiziato.

Quando iniziarono a circolare le voci sull’eccidio di Cenabum, Vercingetorige, che Cesare nel De bello gallico definì “di giovane età” eccitò gli animi alla rivolta.

Egli incontrò però l’opposizione della classe dirigente arverna, che lo espulse dalla capitale Gergovia


Ecco come il proconsole, nella sua mirabile prosa asciutta, ne descrisse l’ascesa:

Non rinuncia all’iniziativa e arruola nelle campagne i poveri e i disperati, messo insieme questo nucleo, convince tutti i concittadini che incontra a passare dalla sua parte, li esorta a prendere le armi per la libertà comune, riunite infine truppe numerose caccia dalla città i suoi avversari, dai quali poco prima era stato espulso.

A quel punto Vercingetorige fu proclamato Re dai suoi fedelissimi. Racconta ancora Cesare:

Spedisce in ogni direzione delle ambascerie, scongiura tutti di mantenersi fedeli, in breve tempo lega a sé i senoni, i parisi, i pittoni, i cadurci, i turoni , gli aulerci, i lemovici, gli andi e tutti gli altri che abitano sulla costa dell’oceano.


Ed è sempre Cesare a tramandare le informazioni sullo “stile di governo” del capo dei galli:

A uno zelo grandissimo accompagna una grandissima severità nell’esercizio del potere, tiene insieme gli esitanti con la gravità delle pene, infatti fa uccidere con il supplizio del fuoco e con ogni altro tormento i colpevoli di gravi delitti, per una colpa più leggera rimanda a casa il colpevole dopo avergli fatto tagliare le orecchie e cavare un occhio, perché siano d’esempio ai rimanenti e gli altri si spaventino per la grandezza del castigo.

Cesare, che un quel momento si trovava a sud delle Alpi, si precipitò per colpire la riottosa Arvernia, noncurante della neve ammassata sui passi

Vercingetorige rispose spostandosi nei territori alleati di Roma e costringendo così il proconsole, in nome del prestigio dell’Urbe, a venire loro in soccorso.

Cesare diede inizio ad una serie di assedi che culminarono con quello di Avarico, l’odierna Bourges, capitale dei galli biturigi.

Caduta dopo un contrattacco finito male, questa sconfitta paradossalmente rafforzò il prestigio di Vercingetorige, che aveva sconsigliato di affrontare i romani in campo aperto.

I due antagonisti puntarono allora su Gergovia, dove ebbe luogo l’assedio successivo.

Stavolta fu a Cesare che andò male. Per lui non fu una gran batosta, ma molte tribù decisero allora di passare con Vercingetorige.

La resa dei conti fra l’armata gallica (arrivata ormai a quasi 100 mila uomini) e i romani ebbe luogo ad Alesia, oggi Borgogna.

Quando la città fu alla fame e l’esercito di soccorso sconfitto, il giovane capo arverno rassegnò il proprio mandato davanti all’assemblea dei capi e si consegnò al proconsole.

La scena della sua resa, immortalata dal resoconto di Cesare, è certamente una delle più famose della storia.

Il proconsole racconta che il capo dei galli si presentò al suo cospetto in equipaggiamento completo, su un cavallo bardato di tutto punto, con il quale compì al galoppo un giro intorno alla postazione del vincitore assiso su una sedia curale, prima di scendere di sella, gettare armi e corazza ai suoi piedi e sedersi accanto a lui senza dire una sola parola.

Vercingetorige si arrende a Cesare (Alphonse-Marie-Adolphe de Neuville – François Guizot)


Il “Grande re degli eroi” non avrebbe più dato noie al futuro dittatore, fu giustiziato sei anni dopo, strangolato a Roma nel carcere Mamertino, dopo essere stato esibito come un trofeo per le vie di Roma.

Una fine che contribuì, soprattutto nell’Ottocento romantico, a farne un simbolo del nazionalismo gallico e un campione della libertà.

Note


TOMARI: L’antica GROTTA SEGRETA del KARATE

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Una mitica grotta nelle colline di Tomari nella città di Naha, di fronte alla costa, fu anticamente il nascondiglio dei naufraghi cinesi arrivati ad Okinawa.

Molti dei quali erano artisti marziali che cominciarono a praticare ed a insegnare il Karate in questo mitico luogo nella più assoluta clandestinità.

È questo il caso di Chinto, l’abile karateka cinese al quale dobbiamo il nome di uno dei Kata di Karate più rapidi e più fluidi.

Oppure di Kosaku Matsumora, l’eroe del posto da quando nel 1392 le famose 36 Famiglie di Kume (il cui nome si deve al quartiere dove si stabilirono) si trasferirono dalla città cinese di Fuzhou fino a Naha.

Il pellegrinaggio di cinesi ad Okinawa fu una costante, benché la storia nella quale ci immergiamo si situi quattro secoli più tardi.

Chi è Kosaku Matsumora

Kosaku Matsumora (1829-1898) nacque nella cittadina di Tomari. Di enorme talento, fu una persona che seppe approfittare del suo piccolo ma potente corpo.

Quando era giovane studiò le tradizioni marziali di Tomari, dove si distinse come coraggioso e bujin.

Arrivò ad essere ben conosciuto per la sua cavalleria e per il suo spirito vibrante e fu sempre ricordato per aver evitato che un Samurai armato di katana importunasse gli abitanti di Tomari.

Poi in uno sforzo per evitare delle rappresaglie, si confinò in un luogo remoto di Nago. È anche ricordato per aver protetto la proprietà della cittadina su incarico del governatore.

Nel 1879 le proprietà e i beni  derivanti dai contributi rischiarono di essere confiscati dal nuovo governo, dopo che il Re abdicò e il Regno venne abolito.

Ma gli sforzi degli ufficiali giapponesi per confiscare i beni di Tomari furono vani grazie in parte  all’impegno di Matsumora.

Il 7 novembre del 1898 Kosaku Matsumora muore e comincia la sua leggenda a Tomari e per un secolo il suo ricordo è rimasto nelle leggende della zona, e oggi si può ammirare un bel rilievo in suo onore.

La selva di Tomari

La zona più sconosciuta, disabitata e desolata di Tomari, ad Okinawa, è una piccola selva vicino al mare, che è composta da montagne che nascondono delle crepe nel terreno, utilizzate anticamente come nascondiglio da gente che, per una ragione o per l’altra, dovevano rimanere nell’ombra.

I naufraghi cinesi

Questo fu il caso di alcuni importanti Karateka venuti dalla Cina in nave.

Si nascosero in queste grotte dopo aver naufragato di fronte alla costa, e si guadagnavano da vivere come potevano (spesso rubando). Praticavano le loro arti marziali in queste zone nascoste, vicino alla spiaggia di Naminoue.

Verso il XIV secolo Chinto, un marinaio cinese esperto in arti marziali dotato di una notevole abilità nell’arrangiarsi in certe circostanze, cominciò ad insegnare arti marziali vicino alla grotta, e da lui ricevettero tali informali insegnamenti in questo luogo all’incirca 1840 contadini di Tomari e personaggi che sarebbero poi diventati importanti in futuro, tra cui Giei Yamada.

Non possiamo parlare di Tomari senza parlare di Kosaku Matsumora, che divenne il maestro più importante e famoso della forma marziale conosciuta da approssimativamente l’anno 1700 come Tomare Te.

Chinto e Kosaku Matsumora

Kosaku imparò questa forma del futuro Karate con Teruya Kishin e un giorno, mentre stava praticando le sue arti marziali in gran segreto e in solitario vicino alla grotta, notò che c’era qualcuno che lo stava spiando dall’interno della grotta.

Matsumora andò a raccontarlo a Teruya e quest’ultimo lo fece ritornare sul posto dove la “spia“ della grotta uscì, si scusò per aver interrotto il sua allenamento, gli consegnò un foglio e poi, quell’enigmatico personaggio semplicemente sparì.

Quando Kosaku mostrò il foglio a Teruya, questi esclamò: “chiaro, non poteva essere che lui“, si trattava di Chinto.

Tempo dopo Sokon Matsumura, il Capo Militare del castello di Shuri, fu inviato a fermare un clandestino cinese che aveva causato dei tumulti nella città e che si era stabilito nelle grotte di Tomari.

Le strategie, le furberie e le abilità di quel cinese fecero si che la missione non risultasse così facile, come in principio era sembrata, si trattava di Chinto e Sokon Matsumura per arrestarlo, si fece accompagnare da un esperto conoscitore del posto e delle grotte delle colline di Tomari.

Questo esperto non era che Kosaku Matsumora, il quale in questo modo ebbe modo di conoscere assieme a Matsumura, questo bizzarro cinese.

In poco tempo i tre diventarono amici per via della loro passione comune, le arti marziali, di cui si scambiarono le rispettive conoscenze.

L’abilità di Chinto gli fece meritare l’onore di dare poi il nome al famoso Kata (più avanti conosciuto in alcune scuole di Karate anche come Gankaku).

Benché non si sappia se sia stato una creazione sua, di Matsumura Sokon o se semplicemente sia stato importato dalla Cina da quest’ultimo e poi ribattezzato con quel nome in onore di Chinto.

Il significato esatto del nome Chinto è incerto

Una traduzione potrebbe essere “lottare dell’ovest“, mentre un’altra potrebbe essere “lottare in una città“, Chinto fu uno dei Kata che Gichin Funakoshi portò in Giappone, assieme ad altri 15, all’inizio era un Kata introdotto dal Tomari –Te ed integrato allo Scurite.

Ci sono più di 5 differenti versioni di Chinto.

La versione di Tomari mantiene qualcosa dell’essenza cinese, mentre quella di Shuri è più semplicistica, il Kata segue una linea di movimento retta e si deve eseguire con tecniche molto dinamiche.

Caratteristica di questa forma è la ripetuta posizione con la gamba alzata, che ricorda la splendida visione di una gru posata su una roccia mentre sta per colpire la sua vittima.

Si usano anche vari calci in salto, che la contraddistinguono da altri Kata.

Entrambe le caratteristiche rappresentano la preparazione del Kata per lottare su gradini e tratti di scala, da una parte, e in posti con un terreno non uniforme e perfino delle pietre dall’altra.

Il terreno dove è ubicata la grotta, ha influenzato anche la tecnica di questo Kata, con i salti con calcio frontale sferrati da sopra le rocce.

Sia il personaggio Chinto che Tomari lasceranno un segno nella vita di Kosaku Matsumora, il quale diventò poi un un vero e proprio eroe per via della sua strenua difesa degli interessi dei contadini di Tomari nel corso degli anni in cui i Samurai dell’isola principale del Giappone li sottomisero.

Divenne molto famoso e ancor oggi si ricorda in questa zona il combattimento che Matsumora una volta ebbe contro un Samurai Satsuma.

Il fatto accadde nella via Haariya. Durante il combattimento, nel quale il Samurai usò la sua Katana regolamentare e Matsumora solo una giacca di panno, il Karateka perse un dito… che gettò nel fiume insieme al capo d’abbigliamento.

Senza dubbio Matsumora è il vero simbolo di Tomari

Con tutto rispetto di un altro esperto della zona, Kokan Oyodomari, i suoi allievi ricevettero insegnamenti regolarmente dall’eroe di Tomari nelle zone della grotta, estemporanei dojo naturali di allora, ed oggi considerati da coloro che amano il Karate più tradizionale, come luoghi storici della nostra arte marziale.

Come aneddoto da menzionare va detto che Kosaku non voleva insegnare tecniche di combattimento a Motobu per via del suo modo di essere. La bizzarria di Chocki lo spinse a spiare Kosaku nei suoi allenamenti privati e a rubargli così alcune sue conoscenze.

Note


[RICERCA DEL GIORNO] Folklore nella cultura alimentare sarda

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Con questa ricerca tratteremo il modo in cui la cultura alimentare sarda si è legata col tempo all’antichissimo al folklore locale. Andremo a vedere come con certi rituali, spesso legati a suggestioni e credenze locali, le persone tentavano semplicemente di alleviare la vita di ogni giorno.

Non solo Pane: Folklore nella cultura alimentare sarda

Da sempre l’umanità ha individuato negli alimenti, o nei derivati animali e vegetali, tanto gli elementi utili a garantire la sopravvivenza in senso stretto, quanto gli aspetti delle valenze magico/rituali in funzione terapeutica o scaramantica.

Queste ultime a volte sconfinano in quella che è comunemente definita superstizione, a volte invece, alla luce delle nuove scoperte scientifiche, si dimostrano realmente in grado di sconfiggere determinate malattie o di prevenirne l’insorgere.

Numerosi ricercatori hanno affrontato questo argomento con taglio diverso secondo la loro specializzazione.

Così abbiamo avuto, di volta in volta, spiegazioni di tipo sociologico, antropologico, psichiatrico e religioso ecc…

Non è mia intenzione tentare ulteriori analisi particolareggiate, per le quali rimando agli autori dei testi specifici della bibliografia essenziale citata

Semplicemente vorrei mostrare alcuni di questi aspetti legati agli alimenti, e rilevare come, nonostante la pressione delle culture egemoniche, che da sempre hanno tentato di sopprimerle, siano arrivate pressoché intatte fino ai giorni nostri e che solo oggi, stiano realmente svanendo nell’oblio a causa della massificazione dei costumi e della scomparsa della cultura orale tradizionale, che in alcuni casi era la sola deputata a tramandarle.

Storie di tradizione orale

Alcuni di questi riti magico/terapeutici sono già stati registrati, altri sono a tuttora assenti nei vari testi di d’etnologia.

Si riesce a venire a conoscenza solo dopo ore, o addirittura giorni, di paziente conversazione con le persone anziane.

Queste, infatti, tendono a riportare fatti per lo più già noti, o comunque che si sono conservati anche nella memoria più recente, chiudendo così il discorso con l’interlocutore.

Ma se si presenta loro la dovuta attenzione, anche quando si parla magari d’altro, improvvisamente salta fuori qualcosa di nuovo.

Qualcosa che magari era stato rimosso da una sorta di censura etica, o forse solo dimenticato.

Del resto, tutte le occasioni importanti, nell’arco dell’anno o della vita umana, sono sancite da tradizioni particolari, volte, come ho già detto, a tutelare un’esistenza che si prospetta precaria e in balia di eventi sconosciuti e ingovernabili.

Rituali esoterici per alleviare la vita

Cristiano Cani – Paste e dolci tipici della Sardegna

Ecco allora le storie di spiriti, di anime in pena che causano sofferenze, se non si rabboniscono in qualche modo.

Non si tratta di veri e propri riti di tipo apotropaico, bensì di azioni volte a migliorare le condizioni dei vivi, e con loro anche dei defunti, che spesso si aggirano ancora nel mondo nell’attesa della pace eterna, e che potrebbero essere addirittura parenti delle persone che “vanno a visitare”.

Queste si preoccupano quindi di rendere più lieve la loro attesa, con preghiere o azioni materiali volte a soddisfare le supposte necessarie.

A questo punto, anche il pianto, apparentemente senza motivo, di un bambino piccolo, che tra le braccia dei genitori non trova conforto, e nel lettino ancora meno, può essere causato da qualcosa di soprannaturale.

Ai genitori, ormai stremati, era consigliato, solitamente da un’anziana della famiglia, di mettere un pezzo di pane sotto il cuscino del piccolo, questi sotto la spinta della disperazione eseguivano, il bambino, dopo un po’, tornava tranquillo (non è dato sapere dopo quanto tempo) e con lui anche i genitori.

Le anime che lo infastidivano, trovato il pane, si erano messe a mangiare lasciandolo finalmente tranquillo.

Che le anime se ne andassero in giro giorno e notte cercando di mangiare non è una novità (basti pensare all’antico Egitto), ma in Gallura, ancora ai primi del novecento (e in alcune zone, anche oggi) la Notte dei Santi, si allestiva un vero e proprio banchetto ad uso e consumo delle stesse.

Una tovaglia bianca, apparecchiatura festiva, pane, vino e cibo, erano poggiati sul tavolo della cucina, la porta che si affacciava verso l’esterno era lasciata aperta e la famiglia andava a letto.

Le anime avrebbero avuto di che soddisfare la fame. Al mattino il tavolo era ripulito.

Nessuno aveva visto niente, solo a qualcuno era parso di sentire dei rumori provenienti dal locale in cui era esposto il cibo, ma del resto, chi mai si sarebbe sognato di andare a controllare?

Ovviamente poi, il fatto che il cibo fosse scomparso, dava ragione a chi quest’usanza continuava a perpetuarla

Solo qualcuno iniziava ad insinuare che forse non di anime si trattasse, ma di mendicanti o bontemponi…Inutile dire che la teoria era destinata a cadere inascoltata, o addirittura tacciata di eresia (ovviamente al contrario).

Anche la notte del 1° agosto si procedeva in modo simile

In quest’occasione si preparava un cunchinu di chjusoni (un bel piatto di gnocchi) conditi con formaggio e pomodoro fresco e, questa volta, si metteva sul davanzale.

Anche in questo caso, alle prime ore del giorno, il piatto era ripulito e le anime imbonite, con gran soddisfazione degli abitanti della casa che da questo fatto traevano auspici favorevoli per tutta la famiglia.

Di questa consuetudine rimane traccia nell’abitudine, ancora viva in alcune zone della Gallura, di preparare il 1° agosto, questa pietanza. Non sappiamo però se solo per i vivi, oppure anche per i trapassati.

Tradizioni al giorno d’oggi ormai perse

Un giustificato pudore impedisce di ammettere, oggi, una tale abitudine, anche per non essere esposti al ludibrio dei più “colti”.

Un’altra forma scaramantica, questa volta un po’ più complessa, anche perché gli informatori non sanno dare spiegazioni in merito, è quella di lu casju parafocu (il formaggio che ferma il fuoco).

In questo caso, il Giorno dell’Ascensione, l’allevatore/agricoltore prelevava una forma di cacio dalla scorta annuale, e, dopo averci inciso sopra, con un coltello, una croce, la conservava in un angolo della casa fino al termine della stagione estiva.

Questa forma possedeva la virtù di proteggere tutto il territorio, di proprietà dell’esecutore, dai temutissimi fuochi estivi.

Anche se, come già detto gli informatori non sanno spiegare questa usanza, da quanto dicono, pur non dichiarandolo apertamente, si può desumere che rappresentasse una sorta di tutela contro il male estremo per antonomasia.

Oltre a queste forme scaramantiche, altri espedienti costituiscono una via di mezzo tra queste e la medicina popolare.

Vi è, infatti, una fusione tra elementi magico – rituali ed altri che potrebbero avere, se opportunamente studiati, un riscontro spiegabile scientificamente.

Prendiamo ad esempio l’Ociu Casgju, preparato il giorno dell’Ascensione

Prendiamo ad esempio l’Ociu Casgju (olio del formaggio) che era preparato il Giorno dell’Ascensione.

In quella data si “segnavano” capretti e agnelli e si marchiavano i manzi. Mentre gli uomini attendevano a queste incombenze le donne preparavano il pranzo.

In questa occasione era d’uopo cucinare la mazza frissa, una salsa di condimento per gli gnocchi ottenuta con la panna di latte.

Durante la cottura, la panna rilasciava l’olio in essa contenuto, questo era raccolto in un vasetto e conservato per tutto l’anno come unguento medicinale, specificamente per lu mali di la ula e lu custuppatu (mal di gola e bronchi impegnati).

Spalmato sul torace e poi ricoperto cu la calta biaitta di la pasta (la carta straccia azzurra della pasta sfusa) o cu la bambacia (ovatta) era considerato infallibile.

In altre zone quest’olio veniva preparato il 3 febbraio.

In questo caso ci troviamo di fronte ad una corrispondenza perfetta tra il rito popolare e quello religioso,

Perché in questa data la Chiesa Cattolica celebra S.Biagio vescovo e martire (III-IV sec.)

A lui sono riconosciute qualità di taumaturgo, protettore degli animali, Santo dei fidanzati e… guaritore del mal di gola.

Questo perché avrebbe guarito un bambino che stava per morire soffocato da una spina di pesce;

Ma mentre la chiesa festeggia in quel giorno “la candelora”e nella cerimonia sacra sul collo dei fedeli il celebrante poggia una candela benedetta che poi, portata a casa, verrà utilizzata tutto l’anno con questa funzione.

Il popolo utilizza le sostanze che ha a disposizione, e che, se vogliamo, sono anche affini (cera – grasso) con le stesse finalità.

C’è da sottolineare che il fatto di sottolineare che il fatto di strofinare il torace con un unguento, causando il riscaldamento della zona interessata, potrebbe, in effetti, portare ad un miglioramento delle condizioni dell’ammalato.

Se poi questo unguento è stato preparato il giorno dell’Ascensione, e quindi nel periodo in cui le piante sono quasi al culmine delle loro proprietà curative, si può ipotizzare che parte delle loro sostanze attive si siano trasferite nel latte e quindi nel nostro olio.

È chiaro che sono solo ipotesi senza fondamento certo, ma quanta di questa saggezza popolare non è stata prima irrisa e poi accolta?

Si pensi semplicemente all’uso delle erbe, da sempre patrimonio della tradizione popolare ed ora accettata e ricercata da tutti.

Diverso il discorso dell’Uovo del giorno del 25 marzo

Qui, o ci si crede, o non ci si crede. Gli “antichi” ci credevano! L’uovo deposto dalla gallina il 25 Marzo, vale a dire nove mesi prima della nascita di Gesù, quindi nel giorno ipotetico del Suo concepimento, veniva raccolto e conservato in un luogo inaccessibile fino a Natale.

Non si doveva toccarlo per nessun motivo, pena la riuscita del “prodigio”, se ci si atteneva a queste regole, il giorno di Natale l’uovo sarebbe stato ormai di cera

A questo punto diventava anch’esso medicinale e, passato sulla gola malata, la guariva, poggiato su un arto dolorante ne leniva il dolore ecc…Questi sono solo alcuni esempi della miriade di riti che l’uomo ha ricercato o creato per risolvere i problemi di ogni giorno.

Oggi ci fanno sorridere, e forse ci meravigliamo dell’ingenuità dei nostri nonni, disposti a credere a simili panzane, ma…Stiamo bene attenti, perché, come si dice: “Quel che buttiamo via dalla finestra, rientra dalla porta”.

Quanti di noi, infatti, non si sono mai sentiti dire da qualcuno, non necessariamente più anziano: “Bevi il caffè stando seduto, altrimenti non diventerai mai ricco!”

E soprattutto, chi non si è seduto immediatamente, dopo una simile minaccia?

Quanti di noi, ancora, non si sono accodati alle schiere degli adepti della Notte di Halloween, muniti di zucca e sonagli, pronti ad andare in giro, all’insegna della nuova cultura egemone, per chiedere “dolcetto o scherzetto”? invece di: “Li molti e molti”, senza pensare che la festa di Halloween non è nient’altro che un rito simile a quelli che volutamente abbiamo seppellito, bollandoli come dabbenaggini da ignoranti.

Infine, visto che il filo conduttore del nostro discorso è la tradizione alimentare.

Come facciamo a sorridere dei nostri vecchi, che traevano auspicio da un piatto di gnocchi lasciato sul davanzale o dalle foglie d’olivo nummati (cui era dato il nome di un uomo e quello di una donna), gettate sul piano incandescente dei focolare se poi, puntualmente andiamo a guardare l’oroscopo del giorno.

E a Capodanno, per quanto già satolli, non rinunciamo a mangiare le lenticchie che, per il nuovo anno, saranno foriere di soldi?

E pensare che il Capodanno in Sardegna, una volta era in settembre …Una volta!

Note

Bibliografia

  • Alberto M. Cinese, Cultura egemonica e culture subalterne, Pa. Palombo 1978.
  • Paolo Toschi, Guida allo studi delle tradizioni popolari, To. Boringhieri 1971
  • Giuseppe Cocchiera, Storia de folklore in Europa, To. Boringhieri 1972
  • Francesco Alziator, Il folklore sardo, Bo. La Zattera 1957
  • Francesco De Rosa, Tradizioni popolari di Gallura, Bo. Arnaldo Forni 1989
  • Maria Azara, Tradizioni popolari di Gallura – Dalla culla alla tomba – Roma Italiane 1943
  • Gino Bottiglioni, Vita sarda – folklore, racconti e leggende, Mi. Trevisani 1925
  • Ernesto De Martino, Magia e civiltà, Mi. Garzanti 1962
  • Francesco Cossu, Tradizioni popolari di Gallura, SS. Chiarella 1974
  • Mario Atzori, Maria M. Satta, Credenze e riti magici in Sardegna – Dalla religione alla magia, SS. 1980
  • Marua Margherita Satta , Riso e pianto nella cultura popolare – Feste e tradizioni sarde, SS. Asfodelo 1982
  • Nicolino Cucciari, Magia e superstizione fra i pastori della bassa Gallura, SS. Chiarella 1985

[PILLOLE DI STORIA] Eleonora D’Arborea, juyghissa sarda

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Giudicessa d’Arborea, condottiera e legislatrice. Eleonora può essere definita, senza ombra di dubbio, la più nota dei personaggi del medioevo sardo, e forse di tutta la storia sarda, in quanto sovrana estremamente determinata nella difesa dell’indipendenza dell’isola.

Eleonora nacque probabilmente nel 1340 dalle nozze di Mariano IV

Nacque probabilmente nel 1340 dalle nozze di Mariano IV, giudice d’Arborea, con la nobildonna Timbora, figlia di Dalmazio, visconte dei Roccabertì.

La ragion di stato sancì le sue nozze con Brancaleone Doria, rampollo di una delle più illustri famiglie genovesi. Dall’unione nacquero due figli, Federico e Mariano.

La prima volta in cui Eleonora poté dimostrare le sue doti politiche e la tempra coraggiosa, fu nel marzo del 1383. In quel occasione suo fratello, il giudice d’Arborea Ugone III, con l’unica figlia Benedetta, caddero vittime di una rivolta popolare, forse causata dall’atteggiamento dispotico del giudice nei confronti dei sudditi.

Dopo quei drammatici fatti, la Corona de Logu chiamò a regnare Federico Doria-Bas, figlio primogenito poco più che decenne di Eleonora e Brancaleone; ma, poiché Federico, secondo le consuetudini del giudicato d’Arborea, era troppo giovane per assumere la pienezza dei poteri, fu deciso di porre in sua vece alla guida del giudicato sua madre Eleonora, allora quarantatreenne.

La juyghissa Eleonora si dimostrò dotata di straordinaria abilità politica e di grande forza d’animo

La juyghissa (così Eleonora é indicata dai documenti dell’epoca) si dimostrò dotata di straordinaria abilità politica e di grande forza d’animo, punendo con fermezza gli uccisori del fratello e stroncando in questo modo sul nascere un movimento orientato a costituire Oristano in comune indipendente posto sotto la protezione di Genova.

Intrapresa la lotta contro gli aragonesi, si trovò nel 1383 di fronte ad una situazione drammatica: l’arresto del marito Brancaleone.

Egli si era recato in Spagna, presso il sovrano catalano-aragonese Pietro il Cerimonioso, nel duplice intento di risanare la grave crisi che affliggeva l’Isola e di ottenere una pace vantaggiosa.

Trasferito a Cagliari, fu recluso nella Torre di San Pancrazio, dalla quale tentò, inutilmente, una rocambolesca fuga; fu dunque rinchiuso nella Torre dell’Elefante.

Eleonora si impegnò subito nelle trattative di pace. Nonostante tutti gli sforzi, però, Brancaleone fu rilasciato solo nel 1390, in seguito alla pace di Sanluri.

La pace fu stipulata nel 1388 tra la giudicessa e il sovrano Giovanni il Cerimonioso.

Questa pace fu causa di grave malcontento presso le popolazioni sarde. Questo fu poiché tutte le terre conquistate precedentemente e legate da giuramento di fedeltà al Giudicato d’Arborea, furono sciolte dal giuramento e tornarono nelle mani del sovrano iberico.

Gli Arborensi, guidati ancora una volta da Eleonora, diedero il segno della riscossa nel 1391, riuscendo a riconquistare una buona parte dei territori.

Un’altra tappa degna di nota nella vita di Eleonora è il 1392

Un’altra tappa assolutamente degna di nota nella vita e nell’opera di Eleonora è il 1392. In quell’anno la sovrana si distinse come avveduta e dinamica legislatrice, promulgando la Carta de Logu.

La Carta de Logu fu una raccolta di leggi nel campo del diritto positivo e processuale, civile e penale.

Redatte in sardo arborense ed articolate in 198 capitoli, nel proemio la giudicessa, animata da devozione filiale, dichiara di aver ripreso e arricchito la Carta de Logu di suo padre Mariano IV «sa quali cum grandissimu provvedimentu fudi facta».

Il codice arborense è un documento importantissimo. Esso rivela la volontà della giudicessa di collocare le antiche tradizioni del suo popolo nella cornice di uno stato di diritto, con un risultato che per l’epoca trova pochi confronti a livello europeo.

Del codice resta allo stato attuale un manoscritto del 1400, custodito presso la biblioteca universitaria di Cagliari. La Carta de Logu restò in uso fino al 1827, anno in cui fu sostituito dal Codice Feliciano promulgato dal re piemontese Carlo Felice.

Quanto alla famosa giudicessa, le fonti narrano che morì intorno al 1402. Ella fu forse vittima della “morte nera”, la peste, male che in quegli anni, falciò un gran numero di vite umane in tutta l’Europa

Note


Lo Haragei (腹芸), il sesto senso di un combattente

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Forse mi sto imbarcando in qualcosa di molto complesso, ma all’interno di questo articolo cercherò di essere il più chiaro possibile affinché alla fine possa capirci qualcosa anch’io rileggendolo!

Haragei” è un ampio studio del dominio della bioenergia a partire dal concetto del Ki (energia vitale), acquisito attraverso la respirazione

La respirazione alimenta tutti i nostri sensi, le nostre funzioni organiche, le cellule, gli organi ecc… È lei che ci mantiene vivi, respirare è la prima cosa che abbiamo fatto quando siamo venuti al mondo e sarà l’ultima che faremo, se i movimenti nascono da un semplice processo di inspirazione, allora, ecco qui un gran combustibile.

Alcune scuole del passato si caratterizzavano per il numero di respirazioni applicate agli esercizi, che facevano parte degli esercizi, i quali facevano parte del metodo di allenamento, alcune in quattro, altre in cinque, altre in tre, in un modo o nell’altro, ognuna aveva nel suo proposito quella tecnica come la più corretta e la più vitale per l’obiettivo finale.

Per i più studiosi e mistici, mi numeri possono modificare di molto l’essenza dei Ki assorbito, una volta adulterata questa energia attraverso l’Hara, naturalmente anche i suoi riflessi saranno diversi, questa ricerca fece in modo che si definissero i punti importanti di questo studio.

Respiriamo circa 20.000 volte al giorno.

In ogni respiro, assorbiamo circa 300ml di aria, ma i nostri polmoni sono stati progettati per molto di più, poiché la capacità polmonare di un adulto è di circa 4 litri, la nostra respirazione quotidiana muove appena il 10% della capacità dei nostri polmoni.

Così il nostro corpo e la nostra mente funzionano con una quantità di combustibile molto più piccola di quella di cui hanno bisogno e non potremmo mai esprimere pienamente il nostro potenziale e vivere una vita veramente sana se non incrementiamo il nostro assorbimento di ossigeno .

Con la pratica degli esercizi che lo Haragei ci offre, ampliamo la respirazione e rieduchiamo i muscoli e gli organi che intervengono in questo processo in modo che questo modello respiratorio si mantenga anche dopo aver concluso la pratica

Per i Maestri più antichi tutte le respirazioni corrispondono ad una certa energia inerente all’universo, quando (sono) fatte con la corrispondente contrazione durante l’inspirazione e l’espirazione, si può dire che i numeri pari rappresentano la porzione Yang dell’energia assorbita e quelli dispari la porzione Yin, quando si dice “secondo la contrazione”, è perché la stessa determina se ci sarà o meno l’inversione di queste porzioni dell’Hara, in un modo o nell’altro, nel linguaggio comune, respirazione è l’azione di inalare ed esalare aria attraverso le vie respiratorie.

Dal punto della fisiologia, respirazione è il processo attraverso il quale un organismo vivo scambia ossigeno e biossido di carbonio con l’ambiente, dal punto di vista della biochimica, respirazione cellulare è il processo di conversione delle catene chimiche di molecole ricche di energia che può essere usata nei processi vitali.

Se iniziamo a cercare attraverso la comprensione, vedremo che per capire l’Haragei la prima cosa è non cercare di capirlo, ma sentirlo

Secondo la prospettiva Orientale, comprenderemo il primo punto chiedendoci: che cosa rende possibile l’esistenza di questo sentimento? Dove si trova? Fuori o forse all’interno del nostro corpo? Se si trova nel nostro corpo, chi sente?

La carne, il sangue, le ossa,i nervi, le vene,i polmoni o il cuore?

Se ci pensiamo attentamente, ammetteremo che nessun membro né nessun organo rivendica la sua stessa esistenza dicendo “io“, così , la mente non può essere assimilata ad una parte dell’organismo.

Prendiamo l’esempio dell’occhio, l’occhio non proclama la sua stessa esistenza, non dice a se stesso “io esisto“ o “devo guardare l’esterno in un determinato modo“ L’occhio in se non ha nessuna volontà non sperimenta nessun sentimento, affetto o avversione, è la mente che ha il sentimento di esistere, che percepisce, giudica, si affeziona o respinge, lo stesso vale per l’udito e i suoni, le narici e gli odori, la lingua e i sapori, la pelle e i contatti, l’organo mentale e i fenomeni, non sono gli organi che percepiscono ma la mente.

Gli organi, incoscienti per natura, non sono la mente, sono come una casa  in cui si vive, gli abitanti sono ciò che chiamiamo coscienza:

  • Coscienza visiva;
  • Coscienza uditiva;
  • Coscienza olfattiva;
  • Coscienza gustativa;
  • Coscienza tattile;
  • Coscienza mentale.

Queste coscienze non esistono in modo autonomo, non sono altro che parte della mente, inoltre si può dire che il corpo è come una macchina e la mente il suo autista.

Quando la macchina è vuota, nonostante possegga tutte le attrezzature per circolare, il motore, le ruote, il carburante ecc… e si trovi in perfetto stato di funzionamento, non può andare da nessuna parte.

Allo stesso modo un corpo sprovvisto di mente, nonostante possegga la totalità degli organi, non è altro che un cadavere anche se ha occhi, orecchie, narici non può vedere, udire ed annusare.

L’Haragei ha a che vedere con il dominio… dominio di sé, del suo interno e dell’energia che da lui emana, vedendo le forme con tutto il corpo e la mente, ascoltando i suoni con tutto il corpo e la mente, è possibile comprenderlo intimamente.

Che importanza ha lo Haragei nei movimenti analizzati nei ruoli di Tori e Uke? Nella misura in cui evolviamo nell’allenamento e cominciamo ad effettuare le tecniche con più vigore, in linea generale iniziamo anche a rendere la vita difficile agli “ Uke “.

Per mia esperienza personale, un Uke proiettato con violenza, per effetto di una tecnica di torsione violenta, in futuro può arrivare a soffrire molti danni, se parliamo a livello di Haragei, si può dire che nell’Uke l’energia si aggrappa all’altezza dell’anca, lasciandola pesante e lenta, tutto inizia e finisce con la respirazione.

Nel caso di Uke, si consiglia che la respirazione resti nella parte superiore del corpo, in modo che il Ki circoli nelle regioni chudan e jodan, questo significa che le gambe devono restare leggere, come il riflesso emesso dalle anche alle regioni inferiori del corpo, soprattutto quando siamo stanchi, la tendenza naturale è che il nostro corpo si indebolisca e abbia la sensazione di peso e di fatica.

Possiamo immaginare cosa significa a questo per un Uke nel momento in cui subisce una torsione che lo proietta a terra con violenza, i danni alle mani e alle braccia possono essere gravi e compromettere la sua vita da atleta.

Durante la respirazione normale e tranquilla, il diaframma si contrae e si abbassa lentamente durante l’inalazione

Durante l’esalazione si alza lentamente contro la gravità, assistito in modo sinergico dalle proprietà di retrocessione del polmone e dai muscoli di espirazione del torace.

Le mobilità diaframmatiche nella respirazione tranquilla è di circa di 1 a 3 cm ed è responsabile dal 65 al 70 per cento della ventilazione polmonare, essendo i muscoli respiratori coloro che si fanno carico del restate 30 o 35 per cento, il pericolo sta nel fatto che molte volte Uke stabilisce come meta la costante elevazione della sua energia, cercando di irrorare di Ki il cervello e i polmoni per mezzo della respirazione.

Naturalmente, quando le anche sono pesanti, le condizioni sono diverse rispetto al suo stato normale, poiché l’energia accumulata in questa regione assorbe potenza il Ki inalato attraverso la respirazione, essendo il corpo pesante, è naturale che le gambe assorbano la compensazione di questo Ki che dovrebbe salire sino alla regione Jodan.

Questo scambio graduale continua fino a quando i muscoli respiratori e accessori del torace si fanno carico del 70 per cento dello sforzo respiratorio e il diaframma solo del 30 per cento, si crea un disturbo nel recupero dell’energia corporale.

Soprattutto in un momento di tensione, il risultato è un tipo di respirazione rapida e superficiale.

Insufficiente a causa della diminuzione del volume, cosa che genera la necessità di una maggiore quantità di aria.

Questa necessità di aria interrompe il ciclo respiratorio e diminuisce ancor di più la ventilazione, dato che l’inalazione ricomincia continuamente prima di completare l’esalazione.

La respirazione diventa discontinua e timorosa e l’individuo ansima costantemente per ottenerla, ma in questo modo non è possibile ottenere energia, per quanto riguarda il Tori, è un po’ difficile studiare qualsiasi tipo di influenza che si eserciti e le sue ripercussioni senza avere la specificazione di ciò che si vuole valutare e confrontare.

La condizione di un Dojo favorisce l’esperienza e ogni studio diventa interessante, ma prende vita nel campo sensoriale e pratico solo quando diventa anche empirico, poi, per una forma teorica di studio, abbiamo bisogno di un esempio, quale potrebbe essere?

Se parliamo di Kote Gaeshi, probabilmente il movimento più conosciuto e forse il più utilizzato nella scuole che studiano il principio di aiki, come renderlo efficiente con l’uso dell’Hara? La maggior parte delle scuole stabilisce come principio di mantenere il peso basso, ma cosa significa tenere il peso basso?

Che tipo di respirazione bisogna utilizzare?

Quando dico “che tipo di respirazione“ è perché tratterò un aspetto della fisiologia posturale dal punto di vista dell’Uke.

Se immaginiamo un Uke forte, con una base ben strutturata e che utilizza la certezza della volontà nell’attacco,naturalmente ci troveremo in una situazione nella quale siamo obbligati a relazionarci direttamente con l’energia del nemico, con l’effetto di mettere a rischio la nostra integrità.

Così sono diversi ragionamenti di guerra che cercano forme e metodi per stabilire una condizione di vantaggio sull’altro, tutti enfatizzano la buona posizione dell’Hara secondo la tecnica eseguita, ognuna in accordo con la scuola o lo stile che contribuisce alla formazione del praticante.

Tutti i movimenti in Kaeshi – che significa tornare, ritornare- determinano che il fondamento di questi si trovi nell’elemento terra, cioè la contrazione dell’Hara si realizza con il momento finale dell’esecuzione, in altre parole si può dire che inspiriamo con l’Hara rilassato ed espiriamo con l’ Hara in contrazione.

Quando ripeto che tale elemento è considerato essenziale per applicazioni in Kaeshi, mi riferisco alle applicazioni in situazioni di attacchi reali, poiché i maestri possono mostrare forme meravigliose nel corso di dimostrazioni ed in armonia con Tori, in queste ultime, sicuramente ci si potrebbe chiedere se forme in aria, fuoco o anche acqua potrebbero non essere efficienti dal punto di vista del Jutsu.

Ecco perché sotto la prospettiva della guerra, l’efficienza è in relazione alla capacità di distruzione e non soltanto con il fatto di mantenerci integri, il buon angolo delle gambe e la buona posizione dei piedi sul tatami, dove indubbiamente devono stare ben saldi, per mezzo delle dita, il grado di contrazione degli stessi, sarà determinante in base alla forma e alla subordinazione dell’Hara.

Nella teoria di KoteGaeshi, varie possibilità di applicazione che sarebbero corrette all’interno di ciò che è tradizionale

Possono essere comprese sotto l’aspetto storico quando sottoposto ad analisi del requisito dell’efficienza.

Certamente esistono alcune forme che contengono la particolarità di avere i loro meccanismi più contundenti e sono conosciute perché funzionano in modo più interessante di molte altre.

Una di queste consiste nel fare Ki tomeru (sottomettere il Ki) nel gomito in diagonale in relazione all’Hara, opposto in una forma discendente, cosa che polarizza il lato dell’Uke a partire dal quale l’attacco si è originato con le caratteristiche “Kaeshi“ e permette un’enfasi dell’ Hara da parte di chi lo applica.

Un’altra forma sarebbe Kuzure, variante, nella quale il ginocchio del Tori è portato a terra dalla forza dell’ Hara in diagonale, visto dall’esterno come un disegno radiale, in quest’ultima, tuttavia le spirali che costituiscono il movimento in vuoto composto, non potrebbero essere uguali.

Quello che non è concludente e lascia la soluzione tra entrambe le forme, è la caratteristica dell’Hara che rende il movimento pesante solo nelle articolazioni o nelle anche dell’Uke, queste conseguenze, d’altronde, si ottengono per mezzo dell’Haragei.

Spero di essere riuscito nell’intento della prefazione, cioè di essere stato chiaro, rileggendo l’articolo mi è sembrato di esserci riuscito, forse è un discorso prettamente per tecnici, ma spero che anche l’allievo riesca a capire l’importanza di ciò che è stato scritto perché sarà sicuramente un arricchimento del suo sapere!

Note


Miyamoto Musashi, il migliore spadaccino giapponese della storia

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La vita di Musashi viene spesso confusa con le leggende che sono nate su di lui nei secoli dopo la sua morte. Questo perché i documenti relativi alla sua biografia sono frammentati e molti sono andati perduti.

In Giappone, fra gli storici che hanno cercato di far luce sulle vicende che lo riguardano, ci sono grandi estimatori e molti detrattori.

Comunque non è un personaggio che lascia indifferenti per i suoi biografi è “relativamente“ semplice ripercorrere la sua vita fino al duello con Kojiro.

Mentre è più difficile trovare fonti certe su quel che fece dopo.

Si trovano invece sufficienti notizie sulla sua vecchiaia

Di certo si sa che era un pittore, e qualche sua opera è rimasta.

Ha lasciato tre opere scritte, anche se tutti parlano solo del libro dei cinque anelli, che di sicuro è il più famoso ed è arrivato a noi grazie ai suoi allievi.

Si pensa erroneamente che non avesse studenti.

Invece proprio il libro dei cinque anelli è dedicato ad un suo allievo.

Inoltre alla sua morte aveva almeno tremila studenti che studiavano se non sotto di lui, sotto la guida dei suoi allievi diretti. Ancora oggi in Giappone ci sono molte scuole che derivano dalla sua.

Altra leggenda afferma che sia stato educato dal monaco Takuan ma non è stato così, anzi i due non sono mai entrati in contatto.

Sul duello più famoso che vinse contro Kojiro, risono gli scontri più feroci tra gli storici, qualcuno insinua che a vincere sia stato Kojiro, detto Ganriu.

Infatti l’isola dove venne tenuto il duello oggi si chiama Ganriujima, ma in molti trovano strano che venga dato il nome del perdente al luogo dell’incontro.

Per altri questo particolare è insignificante, visto che ci sono altre tracce che danno Musashi vincitore. Qualcun altro invece afferma che la vittoria di Musashi è certa, ma non fu onorevole e per questo l’isola ricorda il perdente.

Questo perché c’è un testo scritto da un testimone dell’incontro, dove si racconta che Kojiro non morì ma rimase svenuto.

Quando si riprese venne ucciso da alcuni allievi di Musashi, o da alcuni uomini appartenenti alla famiglia rivale di quella che “sponsorizzava” Koijro.

Infatti questo duello era stato organizzato da due famiglie che si contendevano il potere nella zona

Musashi era il campione di una e Kojiro dell’altra, comunque Musashi dopo questo duello si ritirerà dalla vita di Ronin in cerca di sfide e non cercherà più scontri singoli, se li farà saranno altri a sfidarlo.

Probabilmente il duello rappresentò comunque una svolta nella sua vita, volente o meno.

Se come sembra, ci furono fini politici dietro lo scontro, Musashi forse capì che il singolo non può nulla nelle trame ordite dai potenti nella società.

Forse questo gli fece diminuire l’interesse per lo scontro singolo ed aumentare quello per lo scontro di massa e lo studio della strategia applicata alle battaglie tra eserciti.

Le più forti critiche verso di lui nacquero perché uccise un esponente della scuola Yoshioka in un duello e questi era solo un adolescente di tredici anni.

Va però detto che l’esponente della Yoshioka in quell’occasione non era solo, ma scortato da molte decine di samurai, e ricordato anche Musashi stesso vinse un duello a tredici anni.

Comunque Musashi aveva già ucciso, in due precedenti duelli, i due fratelli maggiori del piccolo Yoshioka.

Il terzo scontro fu deciso dagli allievi della Yoshioka che cercavano per fini personali di salvare l’onore della scuola.

Certamente a contribuire a notizie fuorvianti su Musashi è stato il romanzo di Eiji Yoshikawa.

Bellissimo ritratto di un’epoca e anche del personaggio di Musashi, anche se con chiare invenzioni biografiche, dettate probabilmente da esigenze di narrativa.

Si sa che non si sposò, ma adottò tre figli.

Uno si suicidò alla morte del suo signore, secondo le regole del tempo.

Il terzo lo adottò in tarda età, Musashi non riuscì a diventare maestro di spada per lo shogun.

Venne scelto un altro samurai al suo posto, trovò comunque un signore a cui dare i propri servigi.

In vecchiaia diede diverse dimostrazioni della sua abilità

Non uccideva più gli avversari, li fronteggiava sempre con un Boken.

Solo in una occasione uccise un uomo, ma questo morì sbattendo la testa dopo che Musashi lo spinse con il corpo contro un muro dopo aver evitato un fendente.

Si dice che fosse mancino e abile nel lancio dei coltelli.

In età matura partecipò per il suo signore a delle battaglie, che lo videro vincitore, per lui la strategia che si mette in pratica per un singolo individuo si può utilizzare anche per molti.

Del libro dei cinque anelli l’originale fu perduto, Musashi stesso chiese a due allievi di bruciarlo.Uno lo trascrisse e l’altro lo im

Fu istruito all’uso delle armi dal padre Munisai Musashi

Nato nel villaggio Miyamoto nella provincia di Harima, fu istruito all’uso delle armi dal padre Munisai, che era uno spadaccino riconosciuto dallo shogun.

Mentre al suo sviluppo spirituale contribuì anche il monaco Zen Takuan Soho, a 13 anni ebbe il suo primo duello mortale.

A 16 anni partecipò e si batté nella Battaglia di Sekigahara (1600) per la fazione sconfitta, la Coalizione Toyotomi.

Sopravvissuto al massacro, Musashi cominciò un vagabondaggio per il Giappone alla ricerca di avventure e di affermazione personale.

Vagò fino ai 29 anni battendosi per sessanta volte ottenendo sempre la vittoria.

Tutto questo anche quando si trovò a combattere contro più avversari contemporaneamente o contro maestri di arti marziali, come i Samurai della famiglia Yoshioka, famosi per la loro scuola di spada a Kyoto, li batté tutti indistintamente.


L’epico duello contro Ganryū

Forse il suo duello più celebre fu quello combattuto contro Kojiro Sasaki, detto Ganryū.

Avvenne nel 1612 sull’isola di Funa-jima, il duello ebbe così tanta rinomanza che ora quest’isola porta il nome di Ganryu-jima.

Alcune voci dicono che Kojiro fosse sordo e che Musashi approfittò di questo per colpirlo mortalmente con un bokken ricavato dal remo di una barca che l’aveva portato a Funa-jima, quindi molto più lungo del consueto.

Un’altra versione di questo duello è che Kojiro usava come arma una canna di bambu.

Musashi di conseguenza affilò il remo della barca usata per raggiungere l’isola e appena Kojiro mise mano alla sua canna Musashi gli spaccò la testa con il remo, con un unico micidiale colpo, questo viene riportato sul “il libro dei cinque anelli“.


Si ritiene vero che Musashi non abbia perso mai un incontro

I dati biografici sono incerti, ma tradizionalmente si ritiene vero che Musashi non abbia perso mai un incontro, nonostante contrapponesse spesso un bokken alla Satana dell’avversario (si tenga sempre in mente che il bushido, codice d’onore dei Samurai, imponeva allo sconfitto in un duello di suicidarsi).

Pare inoltre che fosse di modi molto scortesi

Egli non era mai puntuale agli appuntamenti ed aveva scarsissima igiene personale, si dice infatti che fosse impossibile lavarlo finché portava la spada al fianco, cosa che faceva persino nel sonno.

Il ritiro e la morte

A 50 anni si ritirò per dedicarsi allo studio, alla letteratura e ad altre discipline risultando un maestro in molte di esse. Si cimentò con maestria nella pittura e nella calligrafia.

Nella forgiatura delle Tsuba, le guardie delle spade che risultavano opere d’arte in sé, diede il proprio nome a un modello divenuto poi tradizionale.

La leggenda vuole che al suo funerale un fortissimo tuono scosse tutti i presenti. Il commento dei più fu “È lo spirito di Musashi che lascia il corpo“.

Note

Bibliografia


Mastro Fiore dei Liberi, maestro di Scrimia del XVI secolo

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Se vuoi conoscere l’arte di combattere, porta con te tutto ciò che hai trovato negli insegnamenti, sii audace e non mostrarti vecchio nell’animo. Nessun timore vi sia nella tua mente, stai in guardia, puoi farcela!

Fiore de’ Liberi da Premariacco, figlio di Benedetto De Liberi nacque tra il 1345  ed il 1350 a Premariacco, comune a cinque chilometri da Cividale e a 15 da Udine.

Venne mandato sin da giovanissimo a frequentare le scuole di “Lettere umane“ e, data l’indole vivace, lo ritroviamo allievo alle scuole d’armi presenti in gran numero sul territorio friulano.

La giovanissima età per l’avvio alla carriera marziale era una consuetudine per quei tempi.

Mastro Fiore crebbe dunque in quella fucina di grande tradizione marziale

Se si pensa che il famoso condottiero Jacopo Del Verme ebbe il suo primo combattimento a 16 anni. Mastro Fiore crebbe dunque in quella fucina di grande tradizione marziale per uomini e armi, che in Italia dall’anno Mille era conosciuta con i nomi di Scrirm, Scrama, Scrima e Scrimia.

Spinto dal desiderio di sapere, il giovane friulano si mosse in lungo e in largo in terra padana e oltre le Alpi.

Cercava i migliori insegnanti dai quali apprendere i segreti dell’arte

La sua sete di conoscenza era enorme e per parecchi anni non ebbe sosta.

Ebbe due precettori tedeschi, Giovanni Lo Svevo e Nicolò da Toblem e diversi Maestri Italiani.

La reputazione di uomo d’armi se la conquistò sul campo di battaglia, nelle giostre e nei tornei in cui erano frequenti i duelli in armatura.

La sua fama di Maestro crebbe e il prestigio che si era guadagnato esigeva comunque un prezzo

Dovette infatti difendere il suo nome contro l’invidia in cinque terribili sfide lanciate da altrettanti “ Magistri Scrimidori.

Duelli mortali con spade affilate, senza alcuna parte d’armatura, se non un giacchetto di stoffa e un paio di guanti di pelle.

Duelli crudeli lontano da giudici e amici, in cui la sola regola era ferire mortalmente l’avversario.

Fiore per sopravvivere fece unicamente affidamento su se stesso, sulla sua conoscenza dell’arte, sulla sua spada e su Dio.

Uscire vincente da queste sfide portò altra gloria al Maestro friulano

La sua abilità e il suo sapere attirarono nella sua scuola molti uomini d’armi italiani e tedeschi.

Tra questi molti erano nobili e cavalieri, uomini d’arme e capitani di ventura, avvezzi tanto al campo di battaglia che al duello in steccato con ogni sorta d’arma.

Formati e forgiati all’arte di combattere erano tutti dotati di grande forza, destrezza e conoscenze tecniche superiori alla media.

Alcuni di questi si divertivano a dar prova della loro abilità come fendere con un sol colpo di spada una “mezena” di bue, salire rapidamente scale e pertiche con la sola forza delle braccia, eseguire verticali sui tavoli, eseguire piroette con indosso l’armatura, oppure abbattere al suolo un cavallo afferrandone il morso con una mano.

Alcuni di questi divennero per Mastro Fiore dei “figlioli“ dunque allievi prediletti

Giunto alla soglia dei sessant’anni fu chiamato per svolgere il ruolo di Maestro e precettore del giovane Marchese Nicolò III D’Este.

A corte istruì il giovane e nobile Signore di Ferrara e Rovigo nell’arte di combattere e armeggiare in armi et sine armis e si prodigò a dettare il suo sapere nel prezioso manoscritto FLOS DUELLATORUM.

Quanto ci è stato tramandato da Mastro Fiore è senza dubbio racchiuso nelle sue tre importantissime opere manoscritte, una delle quali datata 10 febbraio 1409

Apprendiamo dalle pagine di pergamena, vergate dalle mani di abili miniatori, che Fiore dopo quarant’anni di pratica e studio dell’arte non si riteneva ancora “ben perfeto magistro“.

Da uomo saggio e previdente, sapeva che sarebbe stata un’impresa tramandare di generazione in generazione anche solo la “quarta parte dell’arte“ senza trascriverne e fissarne i dettami tecnici su carta.

Ritenne così suo compito, come del resto fecero altri Maestri dell’arte , “farne memoria“ con un’opera scritta.

Tramandare in forma integra i segreti della “marcial virtud“ era l’azione più degna per un Maestro

Fiore, ormai anziano, vedeva questo come uno splendido atto finale a sigillo della sua carriera.

A rendere questo suo obbiettivo possibile fu il “Principo Misser Nicolò Marchese da Este”.

Quel Nicolò III per il quale venne chiamato come Maestro alla Corte di Ferrara.

Nicolò allievo brillante del vecchio Maestro ne raccolse l’eredità marziale

Tanto si sentì in debito verso il suo anziano Mentore e tanto ne reputò sublime la conoscenza dell’arte da mettergli a disposizione scrivani e disegnatori di corte per dare vita all’opera finale il “Fior di Battaglia“ sulle conoscenze marziali dell’arte di Scrimia medioevale.

E in questo clima favorevole che Fiore crea e ordina il suo manoscritto, circondato da validi miniatori e altrettanto validi disegnatori, malgrado lui vanti oltre a conoscenze alchemico-erboristiche e metallurgiche, insospettate doti di scrittore e disegnatore provetto.

Si colgono nelle parole del Maestro un senso di profonda soddisfazione per questa sua fatica

La più grande impresa della sua vita, un premio che superava di gran lunga la vittoria in una giostra, la salvezza in battaglia, o la sconfitta di un avversario in un duello mortale.

E in questo modo Fiore, come molti Maestri italiani ed europei, tutelò la propria scuola rendendola insensibile al tempo e ai capricci dei vanitosi, fissandone su carta concetti, principi e tecniche dalle fondamentali alle avanzate.

Grazie alla sua profonda conoscenza dell’arte, il Maestro illustra un interessantissimo sistema di relazioni tra attaccante e difensore, un modello didattico ineccepibile, con passaggi collegati e ruotanti sul sistema a tre eventualità, che vede l’azione e la sua contraria sviluppate fino alla contra-contraria.

Un sistema così sviluppato determina un vero e proprio programma articolato in una vasta gamma di tecniche e connessioni anche tra materie diverse come la lotta senza armi, il combattimento di daga e l’arte della spada.

Attraverso questo lascito e a distanza di sette secoli, Maestro Fiore può ancora trasmettere agli allievi del III millennio, il sapere marziale nella sua forma autentica ed integrale.

Una volta che decriptarono il sistema, attraverso opportuni passaggi non casuali, l’immenso patrimonio di tecniche, strategie ed azioni, diventa disponibile e la bellezza dell’arte di Scrimia si apre in tutta la sua forza marziale.

Note


[MAESTRI DELLA STORIA] Yamaguchi Gogen “Il gatto”

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Yamaguchi Gogen nacque il 20 gennaio del 1909 nell’isola di Kyusho (Isola del sole) a pochi mesi dalla sua nascita, i suoi genitori decisero di trasferirsi nell’isola di Kagoshima.

Lo chiamavano il gatto perché possedeva abilità sorprendenti, il suo sguardo insieme alla sua fama, senza dubbio, gli bastavano per pietrificare o immobilizzare qualsiasi avversario, come il gatto paralizza i topi.

Il motivo di questo spostamento di domicilio era dovuto ad un vulcano

Tutt’oggi attivo, si trovava molto vicino all’isola dove risiedevano, precisamente in quella di Sakarima.

Per questo motivo la prima tappa della sua vita si svolse a Kagoshima, nel seno di una modesta famiglia di commercianti.

Suo padre Yamaguchi Tokutaro, anche se era un piccolo commerciante, discendeva da una famiglia di Samurai, tuttavia i suoi mezzi erano scarsi e non bastavano a mantenere tutta la sua prole, (aveva 10 figli).

Gogen dimostrò sin dall’infanzia un grande entusiasmo per le arti marziali

Gogen era il terzo e come tutti i suoi fratelli, dimostrò sin dall’infanzia un grande entusiasmo per le arti marziali.

I suoi primi contatti con esse furono attraverso il Kendo, poi praticò anche il Judo.

Il suo maestro di Kendo fu Toshiakai Kirino, un grande esperto di quest’arte il quale era famoso in tutto il Giappone per le sue prodezze con la sciabola.

Tale era la sua destrezza con questa arma che era capace di tagliare nell’aria una goccia d’acqua e rinfoderare la sua Katana prima che questa cadesse al suolo.

Tutto faceva prevedere che il Bushido sarebbe stata la sua strada

Rapidamente iniziò ad emergere nel paese per il grande entusiasmo e la dedizione che dimostrava per il Kendo. Tanti furono gli elogi che gli fecero.

Ad Okinawa si accorse di lui il Sensei Maruta

Quest’ultimo era un carpentiere di Okinawa, una persona umile ed apparentemente introversa.

A causa del suo comportamento nessuno sapeva, e nemmeno sarebbe arrivato a sospettare, che sotto quella apparenza di uomo fragile e tranquillo si nascondesse un  grande maestro di Karate.

Un giorno fece partecipe Gogen del suo grande segreto, facendogli una dimostrazione pratica delle sue conoscenze.

Dopo quella dimostrazione, Gogen lo pregò di insegnargli quegli strani movimenti, però il Maestro rifiutò, argomentando che non era ancora preparato per ricevere i suoi insegnamenti (a quell‘epoca il Karate era una disciplina segreta nell’isola e normalmente non si insegnava a chiunque, ogni famiglia aveva il suo stile che, per regola generale, veniva trasmesso solo dai padri ai figli).

Gogen però era un giovane che spiccava per la sua ostinazione e dopo aver superato una dura prova che il Maestro Maruta gli fece fare solamente allora lo considerò degno di insegnargli la sua arte.

il Karate divenne tutta la sua esistenza

In pochi mesi il Karate cambiò la vita del giovane adolescente, a tal punto che divenne tutta la sua esistenza.

Durante il giorno praticava il Kendo nella scuola Jigen, famosa per l’estrema durezza dei suoi allenamenti, la notte si allenava al Karate nella sua casa.

Tale era la sua passione per questa disciplina che più di un giorno allungava i suoi allenamenti fino all’alba.

Nel suo allenamento era inevitabile che causasse rumore, così che presto risvegliò la curiosità della sua famiglia e dei vicini, i quali vedevano sorpresi come quel ragazzo passasse ore a colpire uno strano aggeggio, simile ad un Makiwara, che però ruotava.

Doveva avere molti riflessi pronti, a parte la potenza, per fermare o addirittura bloccare l’altra estremità, Gogen passava ore colpendolo.

Scoprì il piacere di superare se stessi

Presto scoprì quello che significava allenarsi fino a svenire esausti con tutto il corpo dolorante, però scoprì anche il piacere di superare se stessi e di superare tutte queste prove.

Alcuni dei suoi vicini, inclusa la sua stessa famiglia iniziarono a preoccuparsi dello stato mentale di questo giovane che passava il giorno colpendo i muri, gli alberi ecc… fino a finire con le nocche lacerate e ricoperte di sangue, inoltre fu sorpreso in diverse occasioni a realizzare movimenti strani.

Quando questo succedeva, Gogen cercava di dissimulare, facendo qualsiasi altra cosa, per cui tutti iniziarono a temere il peggio.

Suo padre, preoccupato per le sue eccentricità, decise di parlare con lui, al giovane non rimase altro rimedio che confessargli il suo grande segreto.

Durante la sua adolescenza, la sua famiglia lo mandò a studiare alla Università di Kansai

Però gli studi non erano qualcosa che catturava la sua attenzione.

Continuò ad allenarsi con la stessa intensità di sempre, per cui mancava alla maggior parte delle lezioni, per questo motivo fu espulso dal centro.

Suo padre per questo lo rimproverò in maniera dura, Gogen gli promise di cambiare la propria condotta, pregandolo di iscriverlo all’Università di Rytsumeikan per studiare diritto.

Anche se ad essere sinceri, il suo unico interesse ad essere ammesso a quell’Università era il fatto che era famosa in tutto il Giappone per il suo Dojo di Arti Marziali, nel quale era incluso il Karate (bisogna considerare che in quel periodo era praticamente sconosciuto ed inoltre non era considerato come un’arte autoctona giapponese, visto che tutti sapevano che le sue tecniche provenivano dal Kempo cinese, più conosciuto da alcuni come Kung Fu).

Nel 1931 si trasferì a Tokio, per mantenersi in forma entrò in un club di Sumo, dove scoprì che lo spirito e l’Arte in sé non erano compatibili con il Karate, il quel periodo tutto il paese si preparava per la guerra, il partito ultra-nazionalista già controllava il Governo da 11 anni, era l’esercito che dettava le leggi e le decisioni del paese.

Si propagò dal potere una propaganda aggressiva che esaltava la lealtà, il patriottismo e il codice del Bushido (codice del guerriero), il Giappone entrò in guerra con i suoi vicini asiatici, prima di dichiarare guerra agli Stati Uniti.

Note


Mas Oyama, l’ideatore del Kyokushinkai

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Una delle figure più impressionanti della storia del Karate Moderno. Controverso e leggendario, la figura di Mas Oyama ha segnato un prima e un dopo. Analizziamo la sua storia, quella dell’uomo e quella del mito.

In genere quando si parla di grandi Maestri di arti marziali, si tende sempre o quasi a parlare dei loro pregi o difetti come Maestri e la loro storia inizia sempre con fatti che riguardano il Dojo e gli allievi.

In questo excursus del Maestro invece affronteremo la sua vita dall’inizio e cercheremo di capire tutto ciò che c’è stato prima che l’arte marziale costruisse un Maestro.

Chi è Masutatsu Ōyama

Hyung Yee, meglio conosciuto col suo nome giapponese Masutatsu Ōyama, nasce in Corea del Sud nel 1923 da una famiglia nobile.

Come la maggior parte dei grandi Maestri, è un bambino con una salute abbastanza cagionevole, e per porvi rimedio, suo fratello maggiore tenta di iniziarlo a molteplici sport come calcio, atletica e nuoto.

Ma sarà un lavoratore proveniente dalla Corea del Nord assunto da suo padre che, su sua richiesta, comincia ad insegnarli Kenpō (una sorta di boxe cinese) all’età di 9 anni.

Al piccolo Masutatsu però non interessa molto quest’Arte poiché ha una mente sognatrice e fantasiosa, incapace di concentrarsi e di sacrificarsi.

Presto riconosce di non aver fatto quasi nessun progresso nel Kenpō e rivolge il suo interesse verso le convulsioni politiche e ideologiche che sta soffrendo l’oriente negli anni 30.

L’impegno militare ed il trasferimento in Giappone

Viene dichiarata la guerra sino-giapponese e la penisola coreana forma il suo primo pilota militare, SHIN, che si trasforma in un eroe nazionale e in un esempio che tutta la gioventù coreana vuole seguire.

Nel 1938 parte per il Giappone alla ricerca della migliore formazione

Alla vigilia della seconda guerra mondiale il giovane Masutatsu si vede così coinvolto in questa febbre nazionalista e, cosciente del fatto che se voleva arrivare a qualcosa doveva compiere degli studi,a 15 anni nel 1938 parte per il Giappone alla ricerca della migliore formazione in un’accademia militare della prefettura di Yamanashi.

Un’altra versione meno romanzata della sua partenza per il paese del Sol Levante è che deve abbandonare la sua casa obbligato dalle circostanze, dopo aver picchiato suo padre poiché quest’ultimo aveva fatto lo stesso con la madre.

Ma con la velocità con cui si svolgono i fatti, non ha il tempo né l’opportunità di procurarsi del denaro.

Ancora non si sa come sia riuscito a raggiungere la costa per imbarcarsi, i suoi problemi finanziari aumentano a causa del costo del biglietto, quindi sbarca in Giappone praticamente senza soldi.

Nel Sol Levante conoscerà subito quanto è duro essere immigrato e povero in un paese nazionalista e xenofobo

Nessuno vuole affittargli una stanza né dargli lavoro, questo inizia a forgiare nel giovane una determinazione incrollabile, cresce di fronte alle avversità, poiché si rifiuta di tornare in Corea sconfitto.

Dopo alcune settimane durissime durante le quali si vede costretto a dormire in strada e ad accettare qualsiasi lavoretto occasionale che gli permettesse di mettere qualcosa sotto i denti.

Alla fine riesce a prendere in affitto una piccola stanza a Tokyo, dove si iscrive all’Università di Takushoku e trova un lavoro come lattaio che gli permette di pagarsi sia la stanza e gli studi.

Nonostante il miglioramento della sua situazione, Oyama si sente solo e demoralizzato in un paese ostile e cerca un’attività che gli permetta di sfogarsi e di essere motivato.

All’inizio si interessa al Judo ma poco dopo scopre il Karate, a quei tempi ancora un’Arte sconosciuta

All’inizio si interessa al Judo e si iscrive al Kodokan di Igoro Kano, ma poco dopo scopre il Karate, che a quei tempi era ancora un’Arte praticamente sconosciuta, dal momento che Funakoshi l’aveva introdotta in Giappone appena 15 anni prima.

Per Lui quest’arte è una rivelazione, quindi desidera prendere lezioni dal miglior Maestro, e si reca proprio nella scuola del fondatore dello Shotokan, Gichin Funakoshi, e si sottopone alla guida di uno dei suoi figli, Yoshitaka Funakoshi.

Oyama si dedica al Karate anima e corpo, giorno e notte, tanto che, nel giro di un anno, a soli 17 anni ottiene la sua prima cintura nera 1° Dan.

Il suo impegno e la sua devozione per il Karate si riflette in un fisico impressionante e si dedica ad indurire le mani e gambe con rotture spettacolari.

Rimane poco dell’immagine del bambino malaticcio che aveva caratterizzato i primi anni della sua vita

Scoppia la Seconda Guerra Mondiale e Oyama a 18 anni si arruola nell’esercito imperiale, ed alla fine della guerra è un 4° Dan forgiato e indurito dagli orrori del conflitto e dell’occupazione, è allora che accade un fatto che cambia completamente la sua vita e la sue motivazioni.

Si tratta di uno Stato Coreano indipendente (fino a quel momento la penisola coreana era stata sempre occupata dai due giganti espansionistici dell’estremo Oriente: Cina e Giappone), ma quello che colpisce maggiormente Oyama è la dichiarazione di guerra civile tra il Nord e il Sud della Corea.

Questa divisione del suo paese natale strazia il cuore del giovane esiliato coreano, che non sopporta di vedere come la sua gente, manipolata dagli interessi della politica internazionale, sia portata a massacrarsi a vicenda.

Fratello contro fratello, tutto questo lo porta a diventare membro di un’organizzazione politica che lotta per l’unione delle due Coree, ma la vita gli riserva un altro duro colpo, poiché nel giro di poco tempo si rende conto che quella organizzazione non è mossa da ideali, ma piuttosto da interessi economici che si possono ricavare da intrighi internazionali.

L’auto esilio

Profondamente deluso e disgustato da tutto, Mas Oyama si lascia prendere dalla disperazione e dal disinteresse.

Abbandonando tutto ciò che aveva raggiunto fino a quel momento, il mondo gli sta crollando addosso quando conosce un carismatico Maestro di Karate chiamato So-Nei-Chu anche lui di origine coreana e adepto di una setta chiamata Nichiren.

Questo personaggio mistico gli dà solo un consiglio: abbandonare la sua vita attuale, ritirarsi in montagna e coltivare nella natura il suo corpo e il suo spirito, forse così sarebbe riuscito a ristabilire il suo equilibrio emozionale e a raddrizzare la tormentata traiettoria della sua vita.

Oyama comprende che solo un cambio radicale di esistenza può riportargli l’entusiasmo e l’energia, quindi decide di seguire i consigli e si stabilisce sul monte Kiyozumi, nella prefettura di Chiba, sulle rive dell’oceano pacifico.

Lo accompagna nel ritiro un suo allievo che si chiama Yashiro, e insieme costruiscono una capanna di legno in un luogo isolato e comincia la loro nuova vita in simbiosi con la natura selvaggia.

Si alzano alle prime luci dell’alba per correre lungo i monti scoscesi, praticano le rotture colpendo alberi, rami e pietre con i piedi e pugni nudi, lavorano sulla tecnica in coppia e colpiscono un sacco pieno di sabbia.

Sono allenamenti estremamente duri, interminabili ed estenuanti

Se si sopravvive, prove di questo tipo forgiano spiriti e corpi di ferro, infatti Yashiro non riesce a tollerare questo stile di vita per molto tempo e una notte esce dalla capanna per non ritornarvi mai più.

Mas Oyama resta da solo ed inizia a dubitare del senso di tutto ciò, scrive a So-Nei-Chu esponendogli la sua titubanza e questi gli risponde con una frase semplice ma ad effetto

Quello che sembra impossibile può essere realizzato solo da uno spirito perseverante, PERSEVERA! E tutto ciò che ora ti sembra assurdo acquisterà un nuovo significato

Questo infonde nuove forze al morale di Oyama che intensifica gli allenamenti, esigendo da se stesso sempre di più e aumentando l’austerità della sua esistenza.

Alimentandosi fondamentalmente di erbe e qualche altro alimento che gli forniva madre natura, sceglie un pino bello grosso e si propone di dargli 200 pugni prima di ogni pasto, “quando l’albero cadrà sarò pronto a ritornare”.

Dopo diversi mesi, rompe l’albero con un colpo inferto con la mano (shuto) nella parte più indebolita e logorata del pino dai colpi precedenti.

In quel momento ricorda la leggenda di un maestro di Karate che fu in grado di uccidere un toro con un unico colpo, questo sarà il nuovo obiettivo che si darà Oyama: ripetere questa impresa.

E così dopo un anno e mezzo di isolamento, decide di tornare alla civiltà e di mettere alla prova i suoi progressi.

Mentalmente è un uomo nuovo

Mentalmente è un uomo nuovo che è riuscito a cicatrizzare le ferite che gli aveva lasciato la divisione della sua patria, fisicamente dimostra la sua netta superiorità su qualsiasi avversario, radendoli letteralmente al suolo nel primo campionato di Karate aperto a tutti gli stili che si tiene a Tokyo nel 1947.

Il primo incontro con il toro

Continua a ronzargli per la testa l’idea di uccidere un toro con un solo pugno, quindi un giorno si reca in un mattatoio un fuori Tokyo e dopo una lunga spiegazione alle sorprese autorità, queste gli danno il permesso di affrontare un toro di 500 chili.

Oyama gli sferra un pugno secco sul muso e il toro fugge insanguinato ma vivo.

Riesce solo a rompergli un corno, piuttosto scoraggiato decide di rinunciare al proprio desiderio e di dedicarsi a promuovere il Karate in tutto il mondo.

In giro per il Mondo

Nel 1957 Mas Oyama è invitato da un judoka 6° Dan chiamato Kokoshi Endo a fare un giro di dimostrazioni per gli Stati Uniti, fanno più di trenta esibizioni ed Oyama sfida molti professionisti di lotta libera e di boxe vincendo sempre per K.O. arrivando ad apparire fino a nove volte nella televisione americana, poi torna in Giappone coperto di glorie e con le tasche piene di denaro.

Il secondo incontro con il toro

Con il morale alto, decide di ritentare il suo sogno di uccidere un toro con un solo colpo, studia attentamente le abitudini di lotta dei tori e allena con enfasi speciale lo sprint per riuscire a scappare dalla carica di un toro furibondo, quindi aumenta la sua resistenza fisica correndo quasi 8 chilometri al giorno, oltre alle sue solite cinque ore di allenamento giornaliero.

Una società cinematografica gli propone di filmare l’incontro e Oyama accetta, nel 1953 tutto sembra pronto perché tenti di sconfiggere un toro da 625 chili con corna da 40 centimetri, il duello avrà luogo in un piccolo villaggio di pescatori chiamato Tateyama, nella prefettura di Chiba, e sarà filmato.

Il toro viene liberato e carica Oyama

Questi lo evita con un giro e lo afferra per le corna con lo scopo di atterrarlo e ucciderlo, ma, con una forza impressionante, il toro scuote la testa e Oyama viene lanciato in aria, si rialza immediatamente in piedi con il busto coperto di sangue e torna ad afferrare il toro per le corna.

Davanti allo sguardo attonito degli spettatori, dopo una lunga resistenza Oyama riesce a buttarlo a terra, dove lo fulmina con uno Shuto sul muso, Oyama  ha appena raggiunto l’obiettivo che si era prefissato anni prima durante la sua vita da eremita, ha ucciso un toro a mani nude.

L’incontro è durato 35 minuti, tre anni dopo Oyama decide di ripetere l’impresa, questa volta allo stadio Denen di Tokyo.

Dal momento che la società giapponese per la protezione degli animali gli ha proibito in modo legale di uccidere pubblicamente un toro, Oyama decide di rompergli semplicemente un corno per metterlo fuori combattimento.

In questo secondo incontro riesce a mettere K.O. un toro in tre minuti, in totale Oyama affronta 52 tori nel corso della sua vita, dei quali 48 finiscono con un corno rotto e 4 muoiono.

Il trasferimento in Thailandia

Oyama non è famoso solo per i suoi incontri con i tori, nel 1954 si trasferisce nel sud-est asiatico, in Thailandia.

Lo scopofu di sconfiggere il miglior Thai-Boxer e così ripristinare l’onore di alcuni Karateka giapponesi che erano stati sconfitti dai tailandesi.

Oltre a ciò è guidato anche dal proposito di mostrare l’efficacia delle sue tecniche di Karate e di promuovere così la sua arte.

Il combattimento si tiene in una calda serata, un gran numero di persone si accalcano intorno al ring quando Mas Oyama sale nel suo angolo.

Suona la campana indicando l’inizio del primo round.

Mentre gira intorno all’avversario studiando i suoi movimenti, il tailandese chiamato Black Cobra lancia all’improvviso un velocissimo calcio circolare che raggiunge Oyama in testa e lo atterra.

Con gran sorpresa del pubblico rumoroso, il coreano si alza prima che l’arbitro finisca di contare e, avendo bene imparato la lezione continua a studiare il suo avversario.

Il thai-boxer torna ad eseguire un altro potentissimo calcio circolare cercando la mandibola di Oyama, ma questi para il colpo, sbilancia il suo avversario e lo fa rotolare a terra sferrandogli un calcio circolare, il tailandese si rialza sorpreso, mentre il pubblico tace.

L’attacco successivo questa volta è di Oyama, che lo sconfigge con un pugno fratturandogli la mandibola, Oyama si ferma alcuni giorni per affrontare tutti i tailandesi che vogliono salire sul ring con lui e, dopo aver vinto tutti i combattimenti torna in Giappone.

La nascita del Kyokushinkai

D’ora in poi è stato un continuo divulgare il suo stile in tutto il mondo, battezzato da egli stesso nel 1961 Kyokushinkai.

Scrisse libri ed aprì scuole negli stati uniti oltre che in Giappone esegue diverse dimostrazioni con successi clamorosi anche al Madison Square Garden.

Solo a Tokyo si stimano 20.000 praticanti dello stile Kyokushinkai, e questo stile è rappresentato in 43 paesi.

Sono state pubblicate centinaia di autobiografie, e nel 2004 fu realizzato un film sulle imprese di Oyama intitolato FIGHTER IN THE WIND .

La morte ed il ricordo postumo

Masutatsu Oyama muore il 23 aprile 1994 all’età di 70 anni per un cancro ai polmoni, il suo stile ora si pratica in più di 120 paesi superando i 10 milioni di praticanti.

Il Presidente del Sud Africa Nelson Mandela dichiarò:

Finché lo stile di Oyama continuerà con la sua espansione inarrestabile, lo stesso Mas Oyama vivrà nelle mente e nei cuori dei suoi praticanti.

Questa è stata la vita di un grande Maestro, forse non tutti conoscono l’intera vita di questo combattente prima Maestro dopo.

Questo deve insegnarci a non arrenderci mai ma trovare sempre la strada della vittoria nell’arte, come nella vita.

Note


[MAESTRI DELLA STORIA] «Adeus» Hélio Gracie

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Hèlio Gracie era un uomo autosufficiente per quanto riguardava la salute, era una roccia per gli anni che aveva e sapeva come badare a se stesso attraverso l’alimentazione e i suoi rimedi naturali.

Questa volta, però, la cosa era molto più seria di una semplice tosse… Poco dopo il ricovero al pronto soccorso per grosse difficoltà respiratorie, gli venne diagnosticato un polmone allagato e un’estesa infezione.

Hèlio lottò contro la febbre alta per tutta la notte, ma il suo organismo non la superò, i più grandi guerrieri sanno che c’è una battaglia che non vinceranno, ma non per questo abbandonano la lotta prima che sia giunto il momento giusto, quel momento in cui l’unica vittoria possibile diventa il sapersi arrendere totalmente e il lasciarsi andare.

Hèlio non solo derise la morte per un lunghissimo periodo di tempo, molto al di sopra della media delle persone normali, la cosa più importante è che visse una vita notevole ed intensa e come egli stesso voleva.

Il suo nome rimarrà per sempre impresso nell’immaginario collettivo come il padre della rivoluzione

Popolò la terra di figli, una dinastia di campioni dediti alla causa, insegnò a migliaia, che insegnarono a milioni e la sua visione marziale oltrepassò frontiere, culture ed ideologie, il suo passaggio in questa terra lascerà un segno nella storia delle Arti Marziali.

Il suo nome rimarrà per sempre impresso nell’immaginario collettivo come uno dei grandi Maestri, come il padre della rivoluzione Gracie e dell’avvento dei combattimenti senza regole, l’importanza di saper lottare nella più corta distanza e della maestria nel grappling.

La sua forte personalità, le sue idee autorevoli, dirette, proprie di una persona forte e territoriale, colpirono come potenti trapani i praticanti per molti anni, il Gran Maestro ha sempre detto alle persone a lui più vicine che voleva riposare nella sua proprietà.

Mentre si fanno i passi delle sue ultime volontà, suo figlio Royce, che era presente e ha seguito da vicino il suo funerale, probabilmente si impegnerà per ottenere il più presto possibile il trasferimento dei suoi resti, ma sempre seguendo i desideri del defunto, il funerale doveva essere immediato.

Se ne va il Maestro, ma rimangono i suoi insegnamenti, le opere sono i figli dell’uomo, rimane anche il suo seme biologico, una lunga prole, figli e nipoti, orgogliosi rappresentanti di una saga infinita, come lo spirito che animava il suo creatore, rimangono i suoi figli spirituali.

Quelli che praticamente adottò ed educò come veri e propri figli, quegli allievi che anticamente si chiamavano UCHI DESHI in Giappone, come il Gran Maestro Mansur.

Il giorno 29 gennaio 2009 ci è arrivata la notizia del decesso di Hèlo Gracie, a 95 anni, a causa di una polmonite

A furia di ascoltare le storie del superuomo brasiliano, si cominciava a credere alla sua immoralità, ma, sfortunatamente, il giorno 29 gennaio 2009 ci è arrivata la notizia del decesso di Hèlo Gracie, a 95 anni, a causa di una polmonite.

Dei nove figli solo Royce e Rolker hanno avuto il tempo di arrivare alle esequie, gli altri erano sparsi tra gli Stati Uniti e l’Europa,

“Due giorni fa, mia madre mi chiamò e mi disse che papà non sarebbe rimasto con noi per molto, allora mi misi immediatamente in viaggio, sembrava stesse aspettando, appena sono arrivato, se ne è andato.“

Questa la dichiarazione di Royce venuto direttamente in volo da Los Angeles. Ma vediamo di percorrere quella che fu la vita di questo Grande Maestro di Jiu Jitsu.

Nato il 1 Ottobre 1913, il più piccolo dei cinque figli maschi di Gasato e Cesalina

Hèlio Gracie passò la sua adolescenza a Belem, una cittadina dove suo padre conobbe il giapponese Conte Koma , l’amicizia tra i due spinse Koma ad insegnare il suo Ju Jitsu a Carlos, figlio maggiore di Gasato.

Il giapponese che aveva girato il mondo facendo presentazioni, sfide e insegnando il suo Ju Jitsu, trovò in Belem, nella persona di Carlos, il suolo fertile di cui aveva bisogno per perpetuare il suo Ju Jitsu che, allora in Giappone già cominciava a cedere il passo al Judo.

Durante parte della sua infanzia e della sua adolescenza, Hèlio soffriva di problemi di salute e perdeva inspiegabilmente conoscenza, problemi che non gli furono mai diagnosticati con precisione.

Il medico di famiglia non gli permetteva di fare sforzi e gli aveva proibito di allenarsi, nel frattempo, osservava distintamente le lezioni e gli allenamenti dei suoi fratelli, nel 1922, Carlos va a vivere a Rio e nel 1925 apre la prima Accademia Gracie di Ju Jitsu nel quartiere di Flamenco.

Per mezzo di sfide pubblicate nei giornali, insieme ai fratelli, dimostrava l’efficacia del Ju Jitsu, ottenendo così i suoi primi allievi .

Un giorno, quando Hèlio aveva già 15 anni, suo fratello Carlos ritardò ad una lezione e il giovane Hèlio decise che egli stesso avrebbe diretto quell’allenamento, con sorpresa di tutti, la lezione fu un successo e da allora, non abbandonò più gli allenamenti e non soffrì più di quella strana patologia di cui era affetto.

Negli anni 20 i Gracie dovettero usare un Marketing aggressivo chiamato “Gracie Challenge“

Per stabilire il suo stile in Brasile, negli anni 20 i Gracie dovettero usare un Marketing aggressivo chiamato “Gracie Challenge“, lanciando sfide attraverso i giornali al fine di attirare l’attenzione della gente su quell’arte dal nome strano, gli annunci dicevano:

“Se vuoi farti rompere un braccio contatta Carlos Gracie a questo numero di telefono“ e fu esattamente provando l’efficacia del suo stile contro rappresentanti del Karate, del Pugilato, della Lotta Libera e della Capoeira che i fratelli Carlos, Gorge, Oswaldo e Hèlio fecero si che il nome Gracie fosse rispettato in Brasile.

Negli anni 90 arrivò il turno di Corion, il figlio maggiore di Hèlio, che usò la stessa strategia per mostrare il valore del Ju Jitsu brasiliano negli USA, insieme ai suoi fratelli e cugini, Corion vinse centinaia di sfide in garage, all’università e perfino nei seminari, fino a riuscire a convincere un allievo milionario a pagare la produzione dell’UFC, uno spettacolo che dimostrò praticamente a tutto il mondo, l’efficacia del Gracie Ju Jitsu in combattimenti con campioni di tutti gli stili di lotta.

Le impressionanti vittorie di Gorge, Carlos e Oswaldo, nelle prime sfide di Vale-Tudo di quell’epoca, spingevano rapidamente il nome Gracie.

A poco a poco Hèlio cominciò a farsi notare negli allenamenti

A poco a poco Hèlio cominciò a farsi notare negli allenamenti e a 18 anni, il 16 gennaio del 1932 , suo fratello maggiore lo accompagnò per la sua prima prova del fuoco nelle regole del Vale-Tudo, contro il campione brasiliano di Boxe Antonio Portugal.

Nonostante il naturale nervosismo del debutto, Hèlio sconfisse l’avversario con tanta rapidità che alcuni pensarono che la lotta fosse un imbroglio.

Il Gracie deviò il primo jab lanciato da Portugal e lo proiettò al suolo, a terra lo finalizzò con una chiave al braccio in 40 secondi.

Dopo la prima vittoria, Hèlio cominciò a condividere gli spazi nei mezzi di comunicazione con i suoi fratelli maggiori già famosi.

Hélio era un uomo autosufficiente

Hélio era un uomo autosufficiente per quanto riguardava la salute, era una roccia per gli anni che aveva e sapeva come badare a se stesso attraverso l’alimentazione e i suoi rimedi naturali.

Questa volta, però, la cosa era molto più seria di una semplice tosse… Poco dopo il ricovero al pronto soccorso per grosse difficoltà respiratorie, gli venne diagnosticato un polmone allagato e un’estesa infezione.

Hélio lottò contro la febbre alta per tutta la notte, ma il suo organismo non la superò.

I più grandi guerrieri sanno che c’è una battaglia che non vinceranno, ma non per questo abbandonano la lotta prima che sia giunto il momento giusto, quel momento in cui l’unica vittoria possibile diventa il sapersi arrendere totalmente e il lasciarsi andare.

Hèlio non solo derise la morte per un lunghissimo periodo di tempo, molto al di sopra della media delle persone normali, la cosa più importante è che visse una vita notevole ed intensa e come egli stesso voleva.


Popolò la Terra di campioni

Popolò la terra di figli, una dinastia di campioni dediti alla causa.

Insegnò a migliaia, che insegnarono a milioni e la sua visione marziale oltrepassò frontiere, culture ed ideologie.

Il suo passaggio in questa terra lascerà un segno nella storia delle Arti Marziali, il suo nome rimarrà per sempre impresso nell’immaginario collettivo come uno dei grandi Maestri, come il padre della rivoluzione Gracie e dell’avvento dei combattimenti senza regole, l’importanza di saper lottare nella più corta distanza e della maestria nel Grappling.

La sua forte personalità, colpirono come potenti trapani i praticanti per molti anni

La sua forte personalità, le sue idee autorevoli, dirette, proprie di una persona forte e territoriale, colpirono come potenti trapani i praticanti per molti anni.

Il Gran Maestro ha sempre detto alle persone a lui più vicine che voleva riposare nella sua proprietà, ma le leggi degli stati moderni sono così spesso complicate da apparire assurde e invece di dipingere la segnaletica delle strade o qualunque cosa utile, i politici si mettono a legiferare su temi che concernono la libertà dell’individuo, come per esempio quello di scegliere il posto della sua ultima dimora.

Mentre si fanno i passi delle sue ultime volontà, suo figlio Royce, che era presente e ha seguito da vicino il suo funerale, probabilmente si impegnerà per ottenere il più presto possibile il trasferimento dei suoi resti, ma sempre seguendo i desideri del defunto, il funerale doveva essere immediato.

Se ne va il Maestro, ma rimangono i suoi insegnamenti

Le opere sono i figli dell’uomo, rimane anche il suo seme biologico, una lunga prole di figli e nipoti, orgogliosi rappresentanti di una saga infinita, come lo spirito che animava il suo creatore.

Rimangono i suoi figli spirituali, quelli che praticamente adottò ed educò come veri e propri figli, quegli allievi che anticamente si chiamavano UCHI DESHI in Giappone, come il Gran Maestro Mansur.

A furia di ascoltare le storie del superuomo brasiliano, si cominciava a credere alla sua immoralità

Sfortunatamente però, il giorno 29 gennaio 2009 ci è arrivata la notizia del decesso di Hélio Gracie, a 95 anni, a causa di una polmonite.

Dei nove figli solo Royce e Rolker hanno avuto il tempo di arrivare alle esequie, gli altri erano sparsi tra gli Stati Uniti e l’Europa, questa la dichiarazione di Royce venuto direttamente in volo da Los Angeles:

Due giorni fa, mia madre mi chiamò e mi disse che papà non sarebbe rimasto con noi per molto, allora mi misi immediatamente in viaggio, sembrava stesse aspettando, appena sono arrivato, se ne è andato

Vediamo di percorrere quella che fu la vita di questo Grande Maestro di Jiu Jitsu

Nato il 1 Ottobre 1913, il più piccolo dei cinque figli maschi di Gasato e Cesalina.

Hélio Gracie passò la sua adolescenza a Belem, una cittadina dove suo padre conobbe il giapponese Conte Koma. L’amicizia tra i due spinse Koma ad insegnare il suo Ju Jitsu a Carlos, figlio maggiore di Gasato.

Il giapponese che aveva girato il mondo facendo presentazioni, sfide e insegnando il suo Ju Jitsu. Trovò in Belem, e nella persona di Carlos, il suolo fertile di cui aveva bisogno per perpetuare il suo Ju Jitsu che, allora in Giappone già cominciava a cedere il passo al Judo.

Durante parte della sua infanzia e della sua adolescenza, Hélio soffriva di problemi di salute e perdeva inspiegabilmente conoscenza, problemi che non gli furono mai diagnosticati con precisione.

Il medico di famiglia non gli permetteva di fare sforzi e gli aveva proibito di allenarsi, nel frattempo, osservava distintamente le lezioni e gli allenamenti dei suoi fratelli.

Nel 1922, Carlos va a vivere a Rio e nel 1925 apre la prima Accademia Gracie di Ju Jitsu nel quartiere di Flamenco, per mezzo di sfide pubblicate nei giornali, insieme ai fratelli, dimostrava l’efficacia del Ju Jitsu, ottenendo così i suoi primi allievi .

Un giorno, quando Hélio aveva già 15 anni, suo fratello Carlos ritardò ad una lezione e il giovane Hélio decise che egli stesso avrebbe diretto quell’allenamento, con sorpresa di tutti, la lezione fu un successo e da allora non abbandonò più gli allenamenti e non soffrì più di quella strana patologia di cui era affetto.

Le “Gracie Challenge“

Per stabilire il suo stile in Brasile, negli anni 20 i Gracie dovettero usare un Marketing aggressivo chiamato “Gracie Challenge“, lanciando sfide attraverso i giornali al fine di attirare l’attenzione della gente su quell’arte dal nome strano.

Gli annunci dicevano: “Se vuoi farti rompere un braccio contatta Carlos Gracie a questo numero di telefono“ e fu esattamente provando l’efficacia del suo stile contro rappresentanti del Karate, del Pugilato, della Lotta Libera e della Capoeira che i fratelli Carlos, Gorge, Oswaldo e Hélio fecero si che il nome Gracie fosse rispettato in Brasile.

Negli anni 90 arrivò il turno di Corion, il figlio maggiore di Hèlio, che usò la stessa strategia per mostrare il valore del Ju JItsu brasiliano negli USA, insieme ai suoi fratelli e cugini, Corion vinse centinaia di sfide in garage, all’università e perfino nei seminari, fino a riuscire a convincere un allievo milionario a pagare la produzione dell’UFC, uno spettacolo che dimostrò praticamente a tutto il mondo l’efficacia del Gracie Ju Jitsu in combattimenti con campioni di tutti gli stili di lotta.

Le impressionanti vittorie di Gorge, Carlos e Oswaldo, nelle prime sfide di Vale-Tudo di quell’epoca, spingevano rapidamente il nome Gracie.

A poco a poco Hèlio cominciò a farsi notare negli allenamenti e a 18 anni, il 16 gennaio del 1932 , suo fratello maggiore lo accompagnò per la sua prima prova del fuoco nelle regole del Vale-Tudo contro il campione brasiliano di Boxe Antonio Portugal.

Nonostante il naturale nervosismo del debutto, Hélio sconfisse l’avversario con tanta rapidità che alcuni pensarono che la lotta fosse un imbroglio.

Il Gracie deviò il primo jab lanciato da Portugal e lo proiettò al suolo. A terra infine lo finalizzò con una chiave al braccio in 40 secondi.

Dopo la prima vittoria, Hèlio cominciò a condividere gli spazi nei mezzi di comunicazione con i suoi fratelli maggiori già famosi.

Note