Mar. Giu 17th, 2025

P. Algisi

Redattore presso Nuova Isola. Istruttore di Arti Marziali qualificato. Cintura nera 8° Dan Karate Shotokan.

[TECNICA & ARTI MARZIALI] Karate: Il Kata

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Superare le soglie di perdita di concentrazione quando compare la stanchezza è una delle esperienze più ricorrenti nel Karate.

Lo scopo della stessa è familiarizzare con la possibilità di superare queste soglie molto al di là di quello che tutti noi crediamo e quella di riuscire a mantenere la calma interiore nel mezzo di una tempesta.

Questo ci prepara alla vita e alle circostanze inaspettate nelle quali tutti noi possiamo trovarci

Rafforza il carattere degli allievi e li dota di una serenità che li distingue, il Kata offre l’opportunità di allenare questo aspetto dell’autocontrollo, poiché nelle sue sequenze ci sono momenti di grande intensità ed esplosione, di forza ed emozione, seguiti da momenti che richiedono una grande concentrazione, serenità ed equilibrio.

Le sequenze energetiche nei Kata possiedono punti chiave, spesso questi punti sono segnati da un’esplosione di forza che comprende il grido chiamato Kiai, il Kiai è un’espressione della qualità della forza interiore di chi lo esegue, si tratta di un’emissione esplosiva di forza interiore.

Se il nostro spirito non  è liberato, il Kiai non ha potere, non si tratta di gridare di più, ma di gridare sempre dall’addome con una contrazione dello  stesso nel momento finale di esecuzione di una serie concatenata di movimenti.

Questo ci porta ad un altro punto essenziale nella pratica del Kata e del Karate in generale, tutti i movimenti nel Karate nascono dal basso addome, la zona conosciuta come Tandem o Hara, proprio sotto l’ombelico.

Si tratta del centro di equilibrio e percussione del corpo, ma anche di un centro energetico essenziale, dato che ogni spirale si controlla dal suo centro, tutti i movimenti che nascono da quest’area potranno essere compensati ed equilibrati, mentre se partono da qualsiasi altra parte del corpo tenderanno a funzionare come un’onda di scompensi che si concluderà con la perdita di controllo.

I Kata sono un magnifico modo di allenare l’attenzione da questo centro

Si può eseguire un Kata, una volta memorizzato, osservando sempre le sensazioni che hanno luogo in quest’area.

L’interiorizzazione delle stesse è come un riassunto di tutto ciò che serve nel Kata, l’Hara comanda nei movimenti, per questo l’altezza dello stesso rispetto al suolo è una delle basi di una corretta esecuzione, quando le gambe si stancano, spesso si alza il livello dell’Hara per alleviare la tensione tra movimento e movimento, questo non solo indebolisce le tecniche e sbilancia il praticante, ma sottrae alle tecniche stesse fluidità.

Quando avanziamo, in ogni movimento dobbiamo sentire come una corda che tira il nostro Hara o Tandem, alcuni Maestri mostravano questa sensazione tirando l’allievo per la cintura, quando l’Hara avanza, non solo si muove nello stesso piano nel caso delle linee d’attacco di una stessa posizione, ma lo fa in linea retta in avanti.

Queste linee d’attacco si ripetono con frequenza ne Kata Pinan, così come in altri Kata superiori, l’inclusione delle stesse mostra l’importanza dell’allenamento,in questo modo di avanzare con l’Hara nello tesso piano e dritto fino alla fine della sequenza o della linea.

La fluidità

Ecco un altro punto essenziale nella pratica del Kata, le tecniche, i movimenti devono essere fluidi, le tecniche non devono essere segnate tra di loro come passi di un meccano, ma a una deve seguire la successiva, passando immediatamente dalla tensione al rilassamento.

Se stiamo molto rigidi nell’esecuzione del Kata, sprecheremo molta energia, perderemo fluidità e la nostra forma sarà spasmodica.

Molta gente, specialmente all’inizio, tende ad essere tesa, bisogna fare uno sforzo per rilassarsi, un buon trucco è la realizzazione al rallentatore del Kata diverse volte, un altro molto curioso è concentrarsi sul rilassare i muscoli che circondano l’ano, quando non sappiamo come rilassare il corpo.

La fluidità dipende dal fatto che non ci sia un eccessivo consumo di energia, ma anche da una mente calma e serena.

Il nemico principale della fluidità è la meccanizzazione dei movimenti, quando la mente si estranea dall’allenamento, il corpo ripete senza intenzione, questa è la meccanizzazione.

Un movimento senza spirito né presenza dell’anima è inutile per l’allenamento marziale, la nostra Società più alle forme che ai contenuti, favorisce questo atteggiamento, l’allievo deve imparare a rendersi conto che questo atteggiamento è contrario al senso della pratica del Kata.

Per quanto esatta e precisa tenti di essere una tecnica, senza la presenza dello spirito e dell’intenzione, colui che la esegue non vale niente!

I KATA sono la base dell’arte marziale e naturalmente del KARATE

KATA significa forma, si tratta di una serie di movimenti concatenati in una sequenza energetica precisa che disegnano una lotta immaginaria con uno o più avversari.

L’idea dei Kata era quella di permettere l’allenamento in solitario dell’allievo, la perpetuazione della tecnica  e dell’autocontrollo.

Il Kata apre molte possibilità all’allievo di Karate, perché gli permette di correggere ed assimilare i movimenti basilari che compongono il suo studio, all’interno di sequenze logiche di combinazioni che poco a poco andrà interiorizzando fino a farle proprie.

I Kata sono, inoltre, una danza bella e potente, la loro corretta esecuzione meraviglia qualsiasi persona, che ne sappia o meno di Karate, poiché da essa deriva sempre la maggiore delle grazie, oltre che un’eleganza, una potenza ed un autocontrollo magnifici.

I Kata Pinan furono creati da Itosu intorno all’anno 1907 probabilmente basandosi sui Kata Passai, Chinto ( Gankaku ), Kushanku e Jon. Questi Kata furono anche la base degli Heian che Funakoshi Guichin creò anni dopo.

L’idea di queste forme basilari e intermedie è quella di rafforzare e insegnare all’allievo le linee guida dell’arte del Karate, cominciando con combinazioni più semplici che, poco a poco, diventano sempre più complesse, sia per le tecniche realizzate sia per la combinazione delle stesse, stimolando equilibrio concentrazione ed autocontrollo in una sequenza crescente.

La pratica delle forme essenziali del Karate, al contrario di quella che pensano molti allievi, non è qualcosa di superato, bensì contengono in sé l’essenza dell’arte, non ha importanza il grado, la loro esecuzione deve far parte della pratica di ogni Karateka nel corso della sua vita.

Le chiavi per lo studio dei Kata ogni Maestro dovrebbe conoscerle affinché vi sia una comprensione ed una attivazione dei meccanismi che un buon Karateka deve avere.

MEMORIZZAZIONE

Quando l’allievo è in grado di memorizzare bene un Kata non deve aver bisogno di pensare prima di ogni movimento, quando dico memorizzare non è solo ricordare con la mente, ma deve essere il corpo stesso a ricordare le sequenze.

Questo si ottiene, è chiaro, con una ripetizione, ma ci sono dei trucchi affinché questo processo riesca con successo. Il primo di questi è, senza dubbio, quello di allenarsi sui Kata con gli occhi chiusi, una volta appresa la sequenza.

L’attenzione si concentrerà quindi sulle sensazioni corporee, che sono la base della memorizzazione corporale dei movimenti.

Quando si inizia ogni linea, conviene controllare e correggere le direzioni

Si potrà verificare quanto possa essere difficile mantenere il corretto equilibrio e l’adeguata direzione delle linee, quando si scoprono gli errori, si dovranno memorizzare i punti attraverso le sensazioni corporee, dove una punta di piede appoggiata male o una rotazione eccessiva dell’anca fanno perdere l’orientamento.

Molte volte la vista ci permette di correggere errori tecnici attraverso piccoli trucchetti, questo allenamento ad occhi chiusi scopre quelle lacune nella nostra esecuzione, ma ci aiuterà anche a memorizzare profondamente, a livello di  memoria muscolare, le tecniche che ci sono all’interno di ogni Kata, liberando la nostra attenzione per il vero oggetto della pratica, la mobilizzazione di tutto il nostro potenziale energetico, nella cornice della maggiore serenità.

Per entrare in sintonia con questo particolare esistono alcuni piccoli trucchi o punti che vorrei segnalare come guida.

Il primo di tutti questi è sempre stato ripetuto dai Maestri, si tratta dell’uso dello sguardo, sono gli occhi a dirigere la nostra forza in un Kata e devono essere i primi a concentrarsi nel passo successivo tra movimento e movimento.

La testa deve sempre ruotare per prima, prima di realizzare un giro, se gli occhi non si fissano prima sull’obiettivo, non c’è forza nel Kata, diventa solo una danza senza intenzionalità, ripetuta senza verità.

Un aspetto essenziale per l’uso della forza nel Kata è raggiungere il controllo della respirazione, all’inizio e alla fine del Kata, la respirazione deve raggiungere lo stesso stato.

È chiaro che la pratica di un Kata provoca un’accelerazione del ritmo cardiaco, ma il Karateka deve sovrapporsi a questa domanda del suo corpo attraverso la respirazione, la respirazione è la chiave del nostro stato mentale, la regola fondamentale che si riferisce ad essa è di mantenersi sulla soglia di massima efficacia con il minimo sforzo.

Per allenarsi su questo aspetto è un buon trucco praticare lo stesso Kata varie volte a velocità rapida e, subito dopo, lentamente.

La pratica meccanica dei Kata non permetterà il loro apprendimento, per quanto in una prima fase, quella della memorizzazione, questo non sia un problema, l’allievo deve essere molto serio e impegnato con se stesso su questo punto.

La tecnica deve avere spirito, intenzione e focus

In questo modo, in questo modo uno potrà commettere errori tecnici, ma la sua esecuzione sarà corretta per il suo livello, questa, nel mio personale modo di vedere questo argomento, è la cosa più importante.

Alla fine commetteremo sempre imperfezioni formali, la perfezione non esiste nella forma ma in come si vive l’esecuzione, ridurre i Kata a conquiste formali è stupido e non serve a niente e a nessuno, è meglio iscriversi a far danza classica, si otterrebbero risultati migliori!

Con il Karate non si gioca,con il Kata non si dubita, non può esserci indifferenza, pigrizia né meccanizzazione, Kata è soprattutto un esercizio dello spirito.

Un altro aspetto importante nell’apprendimento di un Kata è la capacità di visualizzare l’avversario o gli avversari, ma questo deve avere luogo in una seconda fase dello studio.

I Bunkai (l’applicazione del kata con avversari reali) spiegano la ragione e il modo in cui si sviluppa il combattimento con uno o più avversari, l’allievo non deve innamorarsi di una spiegazione, poiché spesso è possibile incontrarne di diverse.

Gli antichi Maestri fecero così perché l’essenza del Kata è in se stesso e non nel combattimento

Esistono, di fatto, serie di movimenti nei Kata basilari che risultano assurdi da una prospettiva pratica.

Non sono stati pochi i Maestri che hanno propiziato il loro studio inverso, ovvero retrocedendo nelle tecniche di difesa ma avanzando in quelle di attacco.

Questo modo di allenarsi, sebbene irregolare, può risultare molto curioso e utile agli allievi più avanzati, secondo me, la cosa più importante nel momento di immaginare gli avversari sta nella mobilitazione emotiva che provoca.

I Kata devono essere vissuti, sperimentati in modo reale, come se si trattasse di un combattimento in cui fosse in gioco la nostra vita, impregnare di realismo i nostri movimenti visualizzando gli avversari non deve farci perdere il centro e la calma, ma darà potenza e veridicità alla nostra performance del Kata.

Prima di eseguire un Kata c’è un momento di silenzio, il praticante deve chiudere gli occhi in Mokuso (meditazione) liberando la sua mente da qualsiasi pensiero, per farlo bisogna respirare con l’Hara e si concentra su di sé espirando lentamente diverse volte, in seguito, e solo quando è in pace, tende leggermente l’Hara prima della prima azione gridando il nome del Kata con fermezza.

Nel suo allenamento, il praticante si isolerà dall’ambiente con sempre maggiore facilità, è chiaro che, nel corso di dimostrazione o esami, è facile sentirsi inquieti, intimoriti od osservati, ma un praticante deve imparare ad entrare nella sua interiorità, in quello spazio di pace del suo Hara, evitando ogni pregiudizio mentale attraverso la respirazione e la concentrazione.

La pratica continua darà quindi i suoi risultati inibendoci dall’ambiente e da qualsiasi influenza concentrati sul “qui e adesso“.

Questo ci porta al punto successivo, l’esperienza dell’istante, la presenza della mente quieta nel qui e adesso continuo è uno dei risultati dell’allenamento del Kata.

Per quanto cambi la tensione delle sequenze, si deve fluire nell’esecuzione delle stesse senza essere in anticipo né essere in ritardo né di rimanere bloccati (si può essere troppo dipendenti dall’esteriorità), solo quando viviamo ogni tecnica e movimento con la mente tranquilla e perfettamente concentrata sull’esecuzione potremo raggiungere l’adeguata fluidità.

Uno degli insegnamenti dei Kata sta nella loro corretta posizione, gli aspetti tecnici del Kata devono essere allenati con persistenza e si deve essere molto esigenti con ogni movimento e con il modo in cui questo si allaccia al seguente.

La colonna deve essere diritta, se c’è troppa tensione creeremo iper-lordosi accentuando la curva lombare, da questa posizione non può fluire l’energia dall’Hara e, di conseguenza, i nostri movimenti ci stancheranno eccessivamente, poiché a quel punto tutto dipenderà da un lavoro muscolare.

Bisogna insistere ancora una volta sul concentrarsi sulle sensazioni dell’Hara, deve essere in stato d’allerta rilassato o teso, ma non sempre teso

Per mantenere la corretta posizione della colonna ci sono due riferimenti basilari, l’Hara deve poter muovere il bacino da qualsiasi posizione in qualsiasi direzione.

La testa deve essere perfettamente allineata con la colonna, la posizione del mento è un riferimento importante, se sporge troppo, la nostra fronte avanzerà e la nostra posizione sarà sbilanciata in avanti, se troppo all’interno probabilmente stiamo facendo una iper-lordosi e c’è un eccesso di tensione generale.

Quando la fronte sporge troppo in avanti significa che l’esecutore è troppo accelerato e che colpisce con la testa anziché con l’Hara

Deve imparare a essere meno mentale per placare la sua angoscia per il futuro, vive più nella tecnica successiva che in quella che sta realizzando.

Se la sua posizione è quella opposta, dimostra di essere intimorito, l’ambiente lo blocca (lo stanno guardando e si sente giudicato), questa posizione significa anche un’alterazione in eccesso di un’aggressività contenuta.

Lo spirito di abbandono. Il Kata realizzato correttamente emana un’aura di pace, questo accade con l’adeguato atteggiamento spirituale, un Kata è, alla fine,una lotta con noi stessi, ogni vera lotta è a morte, questo significa che, prima di eseguire un Kata, il praticante deve visualizzare che non c’è niente di più importante e, contemporaneamente, che niente di quello che capita lì sarà importante eccetto la sua impeccabilità.

L’abbandono di ogni speranza rendeva invincibili i guerrieri Samurai, quando la mente si focalizza sull’obiettivo, appare la paura del fallimento e, con essa,l’energia non fluisce, la mente, invece di concentrarsi sul positivo, su ciò che sa, su ciò per il quale è stata allenata e in cui confida, si concentra sul negativo, attraendo il fallimento.

La funzione ultima dello studio del Kata è la formazione dello spirito degli allievi, per portarli fino a quella comprensione nella quale lo spirito si libera e trascende il dolore e la paura.

Note


Lo Haragei (腹芸), il sesto senso di un combattente

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Forse mi sto imbarcando in qualcosa di molto complesso, ma all’interno di questo articolo cercherò di essere il più chiaro possibile affinché alla fine possa capirci qualcosa anch’io rileggendolo!

Haragei” è un ampio studio del dominio della bioenergia a partire dal concetto del Ki (energia vitale), acquisito attraverso la respirazione

La respirazione alimenta tutti i nostri sensi, le nostre funzioni organiche, le cellule, gli organi ecc… È lei che ci mantiene vivi, respirare è la prima cosa che abbiamo fatto quando siamo venuti al mondo e sarà l’ultima che faremo, se i movimenti nascono da un semplice processo di inspirazione, allora, ecco qui un gran combustibile.

Alcune scuole del passato si caratterizzavano per il numero di respirazioni applicate agli esercizi, che facevano parte degli esercizi, i quali facevano parte del metodo di allenamento, alcune in quattro, altre in cinque, altre in tre, in un modo o nell’altro, ognuna aveva nel suo proposito quella tecnica come la più corretta e la più vitale per l’obiettivo finale.

Per i più studiosi e mistici, mi numeri possono modificare di molto l’essenza dei Ki assorbito, una volta adulterata questa energia attraverso l’Hara, naturalmente anche i suoi riflessi saranno diversi, questa ricerca fece in modo che si definissero i punti importanti di questo studio.

Respiriamo circa 20.000 volte al giorno.

In ogni respiro, assorbiamo circa 300ml di aria, ma i nostri polmoni sono stati progettati per molto di più, poiché la capacità polmonare di un adulto è di circa 4 litri, la nostra respirazione quotidiana muove appena il 10% della capacità dei nostri polmoni.

Così il nostro corpo e la nostra mente funzionano con una quantità di combustibile molto più piccola di quella di cui hanno bisogno e non potremmo mai esprimere pienamente il nostro potenziale e vivere una vita veramente sana se non incrementiamo il nostro assorbimento di ossigeno .

Con la pratica degli esercizi che lo Haragei ci offre, ampliamo la respirazione e rieduchiamo i muscoli e gli organi che intervengono in questo processo in modo che questo modello respiratorio si mantenga anche dopo aver concluso la pratica

Per i Maestri più antichi tutte le respirazioni corrispondono ad una certa energia inerente all’universo, quando (sono) fatte con la corrispondente contrazione durante l’inspirazione e l’espirazione, si può dire che i numeri pari rappresentano la porzione Yang dell’energia assorbita e quelli dispari la porzione Yin, quando si dice “secondo la contrazione”, è perché la stessa determina se ci sarà o meno l’inversione di queste porzioni dell’Hara, in un modo o nell’altro, nel linguaggio comune, respirazione è l’azione di inalare ed esalare aria attraverso le vie respiratorie.

Dal punto della fisiologia, respirazione è il processo attraverso il quale un organismo vivo scambia ossigeno e biossido di carbonio con l’ambiente, dal punto di vista della biochimica, respirazione cellulare è il processo di conversione delle catene chimiche di molecole ricche di energia che può essere usata nei processi vitali.

Se iniziamo a cercare attraverso la comprensione, vedremo che per capire l’Haragei la prima cosa è non cercare di capirlo, ma sentirlo

Secondo la prospettiva Orientale, comprenderemo il primo punto chiedendoci: che cosa rende possibile l’esistenza di questo sentimento? Dove si trova? Fuori o forse all’interno del nostro corpo? Se si trova nel nostro corpo, chi sente?

La carne, il sangue, le ossa,i nervi, le vene,i polmoni o il cuore?

Se ci pensiamo attentamente, ammetteremo che nessun membro né nessun organo rivendica la sua stessa esistenza dicendo “io“, così , la mente non può essere assimilata ad una parte dell’organismo.

Prendiamo l’esempio dell’occhio, l’occhio non proclama la sua stessa esistenza, non dice a se stesso “io esisto“ o “devo guardare l’esterno in un determinato modo“ L’occhio in se non ha nessuna volontà non sperimenta nessun sentimento, affetto o avversione, è la mente che ha il sentimento di esistere, che percepisce, giudica, si affeziona o respinge, lo stesso vale per l’udito e i suoni, le narici e gli odori, la lingua e i sapori, la pelle e i contatti, l’organo mentale e i fenomeni, non sono gli organi che percepiscono ma la mente.

Gli organi, incoscienti per natura, non sono la mente, sono come una casa  in cui si vive, gli abitanti sono ciò che chiamiamo coscienza:

  • Coscienza visiva;
  • Coscienza uditiva;
  • Coscienza olfattiva;
  • Coscienza gustativa;
  • Coscienza tattile;
  • Coscienza mentale.

Queste coscienze non esistono in modo autonomo, non sono altro che parte della mente, inoltre si può dire che il corpo è come una macchina e la mente il suo autista.

Quando la macchina è vuota, nonostante possegga tutte le attrezzature per circolare, il motore, le ruote, il carburante ecc… e si trovi in perfetto stato di funzionamento, non può andare da nessuna parte.

Allo stesso modo un corpo sprovvisto di mente, nonostante possegga la totalità degli organi, non è altro che un cadavere anche se ha occhi, orecchie, narici non può vedere, udire ed annusare.

L’Haragei ha a che vedere con il dominio… dominio di sé, del suo interno e dell’energia che da lui emana, vedendo le forme con tutto il corpo e la mente, ascoltando i suoni con tutto il corpo e la mente, è possibile comprenderlo intimamente.

Che importanza ha lo Haragei nei movimenti analizzati nei ruoli di Tori e Uke? Nella misura in cui evolviamo nell’allenamento e cominciamo ad effettuare le tecniche con più vigore, in linea generale iniziamo anche a rendere la vita difficile agli “ Uke “.

Per mia esperienza personale, un Uke proiettato con violenza, per effetto di una tecnica di torsione violenta, in futuro può arrivare a soffrire molti danni, se parliamo a livello di Haragei, si può dire che nell’Uke l’energia si aggrappa all’altezza dell’anca, lasciandola pesante e lenta, tutto inizia e finisce con la respirazione.

Nel caso di Uke, si consiglia che la respirazione resti nella parte superiore del corpo, in modo che il Ki circoli nelle regioni chudan e jodan, questo significa che le gambe devono restare leggere, come il riflesso emesso dalle anche alle regioni inferiori del corpo, soprattutto quando siamo stanchi, la tendenza naturale è che il nostro corpo si indebolisca e abbia la sensazione di peso e di fatica.

Possiamo immaginare cosa significa a questo per un Uke nel momento in cui subisce una torsione che lo proietta a terra con violenza, i danni alle mani e alle braccia possono essere gravi e compromettere la sua vita da atleta.

Durante la respirazione normale e tranquilla, il diaframma si contrae e si abbassa lentamente durante l’inalazione

Durante l’esalazione si alza lentamente contro la gravità, assistito in modo sinergico dalle proprietà di retrocessione del polmone e dai muscoli di espirazione del torace.

Le mobilità diaframmatiche nella respirazione tranquilla è di circa di 1 a 3 cm ed è responsabile dal 65 al 70 per cento della ventilazione polmonare, essendo i muscoli respiratori coloro che si fanno carico del restate 30 o 35 per cento, il pericolo sta nel fatto che molte volte Uke stabilisce come meta la costante elevazione della sua energia, cercando di irrorare di Ki il cervello e i polmoni per mezzo della respirazione.

Naturalmente, quando le anche sono pesanti, le condizioni sono diverse rispetto al suo stato normale, poiché l’energia accumulata in questa regione assorbe potenza il Ki inalato attraverso la respirazione, essendo il corpo pesante, è naturale che le gambe assorbano la compensazione di questo Ki che dovrebbe salire sino alla regione Jodan.

Questo scambio graduale continua fino a quando i muscoli respiratori e accessori del torace si fanno carico del 70 per cento dello sforzo respiratorio e il diaframma solo del 30 per cento, si crea un disturbo nel recupero dell’energia corporale.

Soprattutto in un momento di tensione, il risultato è un tipo di respirazione rapida e superficiale.

Insufficiente a causa della diminuzione del volume, cosa che genera la necessità di una maggiore quantità di aria.

Questa necessità di aria interrompe il ciclo respiratorio e diminuisce ancor di più la ventilazione, dato che l’inalazione ricomincia continuamente prima di completare l’esalazione.

La respirazione diventa discontinua e timorosa e l’individuo ansima costantemente per ottenerla, ma in questo modo non è possibile ottenere energia, per quanto riguarda il Tori, è un po’ difficile studiare qualsiasi tipo di influenza che si eserciti e le sue ripercussioni senza avere la specificazione di ciò che si vuole valutare e confrontare.

La condizione di un Dojo favorisce l’esperienza e ogni studio diventa interessante, ma prende vita nel campo sensoriale e pratico solo quando diventa anche empirico, poi, per una forma teorica di studio, abbiamo bisogno di un esempio, quale potrebbe essere?

Se parliamo di Kote Gaeshi, probabilmente il movimento più conosciuto e forse il più utilizzato nella scuole che studiano il principio di aiki, come renderlo efficiente con l’uso dell’Hara? La maggior parte delle scuole stabilisce come principio di mantenere il peso basso, ma cosa significa tenere il peso basso?

Che tipo di respirazione bisogna utilizzare?

Quando dico “che tipo di respirazione“ è perché tratterò un aspetto della fisiologia posturale dal punto di vista dell’Uke.

Se immaginiamo un Uke forte, con una base ben strutturata e che utilizza la certezza della volontà nell’attacco,naturalmente ci troveremo in una situazione nella quale siamo obbligati a relazionarci direttamente con l’energia del nemico, con l’effetto di mettere a rischio la nostra integrità.

Così sono diversi ragionamenti di guerra che cercano forme e metodi per stabilire una condizione di vantaggio sull’altro, tutti enfatizzano la buona posizione dell’Hara secondo la tecnica eseguita, ognuna in accordo con la scuola o lo stile che contribuisce alla formazione del praticante.

Tutti i movimenti in Kaeshi – che significa tornare, ritornare- determinano che il fondamento di questi si trovi nell’elemento terra, cioè la contrazione dell’Hara si realizza con il momento finale dell’esecuzione, in altre parole si può dire che inspiriamo con l’Hara rilassato ed espiriamo con l’ Hara in contrazione.

Quando ripeto che tale elemento è considerato essenziale per applicazioni in Kaeshi, mi riferisco alle applicazioni in situazioni di attacchi reali, poiché i maestri possono mostrare forme meravigliose nel corso di dimostrazioni ed in armonia con Tori, in queste ultime, sicuramente ci si potrebbe chiedere se forme in aria, fuoco o anche acqua potrebbero non essere efficienti dal punto di vista del Jutsu.

Ecco perché sotto la prospettiva della guerra, l’efficienza è in relazione alla capacità di distruzione e non soltanto con il fatto di mantenerci integri, il buon angolo delle gambe e la buona posizione dei piedi sul tatami, dove indubbiamente devono stare ben saldi, per mezzo delle dita, il grado di contrazione degli stessi, sarà determinante in base alla forma e alla subordinazione dell’Hara.

Nella teoria di KoteGaeshi, varie possibilità di applicazione che sarebbero corrette all’interno di ciò che è tradizionale

Possono essere comprese sotto l’aspetto storico quando sottoposto ad analisi del requisito dell’efficienza.

Certamente esistono alcune forme che contengono la particolarità di avere i loro meccanismi più contundenti e sono conosciute perché funzionano in modo più interessante di molte altre.

Una di queste consiste nel fare Ki tomeru (sottomettere il Ki) nel gomito in diagonale in relazione all’Hara, opposto in una forma discendente, cosa che polarizza il lato dell’Uke a partire dal quale l’attacco si è originato con le caratteristiche “Kaeshi“ e permette un’enfasi dell’ Hara da parte di chi lo applica.

Un’altra forma sarebbe Kuzure, variante, nella quale il ginocchio del Tori è portato a terra dalla forza dell’ Hara in diagonale, visto dall’esterno come un disegno radiale, in quest’ultima, tuttavia le spirali che costituiscono il movimento in vuoto composto, non potrebbero essere uguali.

Quello che non è concludente e lascia la soluzione tra entrambe le forme, è la caratteristica dell’Hara che rende il movimento pesante solo nelle articolazioni o nelle anche dell’Uke, queste conseguenze, d’altronde, si ottengono per mezzo dell’Haragei.

Spero di essere riuscito nell’intento della prefazione, cioè di essere stato chiaro, rileggendo l’articolo mi è sembrato di esserci riuscito, forse è un discorso prettamente per tecnici, ma spero che anche l’allievo riesca a capire l’importanza di ciò che è stato scritto perché sarà sicuramente un arricchimento del suo sapere!

Note


[STORIA CONTEMPORANEA] La MORTE di BRUCE LEE

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La morte di Bruce Lee è uno di quegli episodi capace di muovere la macchina che crea i miti, un episodio di caratura mondiale .

Fiumi di inchiostro sono stati consumati sulla questione, ma ancora oggi si sente ogni tipo di stupidità al riguardo.

Esistono tuttavia molti aspetti che sono rimasti oscuri e che oggi dopo una valida ricerca voglio chiarire attraverso questo articolo che per il suo contenuto offre a chi legge la chiara sequenza di avvenimenti che riguardano la sua morte.

In definitiva  questo è il risultato di un lavoro giornalistico impressionante di un famoso esperto in materia: il Maestro Pedro Conde, ma andiamo ai fatti.

Negli studi di doppiaggio di Hammer Hill, Kowloon (Hong Kong), si lavora sulla sonorizzazione degli ultimi rulli del film “Operazione Drago“.

L’edificio somiglia più ad un granaio che ad uno studio di registrazione, la giornata è calda, il lavoro pesante, si è scollegata l’aria condizionata per evitare i rumori di fondo.

Lo studio è, virtualmente una sauna, tutto il team è esausto e di cattivo umore per dover lavorare in condizioni simili.

I nervi sono a fior di pelle, Bruce Lee risente della fatica dei mesi precedenti, in una pausa va in bagno per rinfrescarsi, una volta lì sente un fortissimo dolore alla testa, cade a terra, ma non perde conoscenza.

Quando era a terra ho sentito dei passi, non volevo preoccupare nessuno, ho finto, ho iniziato a tastare  il pavimento come se stessi cercando qualcosa“ (commento di Bruce Lee alla moglie Linda poche ore dopo).

Si alza, sente di nuovo quel dolore pungente e cade a terra, questa volta perde completamente conoscenza

Immediatamente comincia a vomitare e ad avere convulsioni, il tecnico del suono dello studio, signor Win, dichiara quanto segue :

”Abbiamo sentito grida provenire dal piano superiore, abbiamo visto qualcuno sdraiato vicino al water, era Bruce Lee . Lo abbiamo raccolto e portato nella sala di doppiaggio, dove lo abbiamo disteso su un divano, gli tremava la bocca come se avesse un attacco di epilessia”

Un operatore corre per i corridoi fino all’ufficio di Raimond Chow, il socio di Bruce Lee. Questi manda a chiamare un medico e si dirige precipitosamente nello studio di incisione.

Bruce Lee mostrava difficoltà respiratorie ed emetteva un suono rauco dalla gola nel momento stesso in cui aveva le convulsioni”.( R. Chow).

Trasportato Bruce Lee al vicino ospedale Battista, Linda Lee si presenta alla clinica dopo pochi minuti, sono avvertiti altri tre medici, tra essi il dottor Peter Woo, in clinica Bruce Lee continua a soffrire di accessi convulsivi alternati a periodi di calma. Suda copiosamente e sembra che ogni respiro sia l’ultimo.

Gli occhi rimangono aperti ma fuori fuoco.

Poco prima delle cinque chiamarono dalla Golden Harvest portarono qualcuno dello studio che si era sentito male, apparentemente aveva qualcosa a che vedere con Bruce Lee, quando arrivarono vidi che si trattava proprio di Bruce Lee, sembrava molto grave. La sua respirazione era molto irregolare, sudava moltissimo, la sua pelle aveva un colore cadaverico, gli occhi rimanevano aperti ma fuori fuoco. Sembrava letteralmente morto” (Dott. Langford )

Per la sua grande forza fisica è quasi impossibile trattenerlo durante le convulsioni

Il personale medico si preparò per eseguire una tracheotomia, nel caso smettesse di respirare, la sua grande forza fisica rende difficile il lavoro, dal momento che è quasi impossibile trattenerlo durante le convulsioni.

Bruce continua a non reagire, il neurochirurgo nota qualcosa di strano: il cranio è troppo voluminoso.

Gli fu somministrato del Mannitolo per ridurre il gonfiore del cervello, man mano che lo facevamo, il suo stato cominciò a migliorare

Dott. Langford

Prepararono la sala operatoria nel caso il Mannitolo non faccia effetto, ma le convulsioni iniziano ad essere meno frequenti e violente, l’infiammazione si riduce nel giro di due ore  Bruce Lee  riprende i sensi.

All’inizio riusciva a muoversi poco, poi aprì gli occhi e fece dei segni, non riusciva a parlare, riconobbe sua moglie e le fece un sorriso, poco a poco recuperò la parola e, quando fu trasferito, scherzava e cominciava a ricordare quello che era successo

Dott. Langford

“Un’analisi del sangue aveva evidenziato un possibile mal funzionamento dei reni, appena potemmo muovere il paziente, lo trasferimmo all’Ospedale Santa Teresa, poiché dispone di impianti migliori.Io avevo intenzione di praticare un elettroencefalogramma e fare delle radiografie del sistema vascolare del cervello iniettandogli una sostanza radio opaca, ma il signor Lee non volle che gli facessimo questo controllo, preferì essere trasferito a Los Angeles per sottoporsi ad un approfondito esame medico

Dott. Peter Woo

Con il Dottor Woo, per la prima volta, viene alla luce il tema del consumo di cannabis da parte del Drago:

Ci disse che, mentre stava lavorando al doppiaggio aveva masticato delle foglie “hascisc” che gli avevano dato, dopo di ciò, ebbe le vertigini e iniziò ad avere nausea e a vomitare fino ad entrare in coma. Raccogliemmo un campione di quello che aveva vomitato e trovammo una quantità importante di hascisc, quindi la nostra diagnosi fu che aveva avuto un’overdose di tale sostanza o che era molto sensibile alla stessa o a qualcuno dei suoi componenti, dal momento che questa era la causa del problema che aveva avuto

Dott. Peter Woo

Secondo quanto racconta Linda, la moglie di Bruce Lee, dopo essersi ripreso Bruce Lee le dice

Mi sono sentito molto vicino alla morte… ma mi sono detto che l’avrei combattuta, ne sarei uscito, non mi sarei dato per vinto, sono sicuro che senza questa predisposizione sarei morto

Il dottor Rersbord diagnostica tale evento come: episodio convulsivo, del tipo più grave di epilessia, la cui causa è sconosciuta.

Una settimana dopo, Bruce Lee va a Los Angeles, un team di medici, guidato dal dottor David Rersbord, lo sottopone ad un’accurata esplorazione cerebrale e realizzano uno studio dei liquidi cerebrali senza trovare alcuna anomalia.

La diagnosi dei dottori fu che Bruce Lee aveva sofferto di un edema cerebrale

Questo Edema è caratterizzato da un’infiammazione anormale, dovuta all’infiltrazione di siero nella cavità cerebrale, sotto la pelle, che provoca alterazioni morfologiche e funzionali .

Può essere il risultato di un’ipertensione capillare, di un ostacolo nei (vasi) linfatici o di un aumento della permeabilità capillare.

Nel caso del “Piccolo Drago” non si trova niente di anormale nel suo organismo, anzi il dott. David Rersbord rimane sorpreso dal fisico di Bruce Lee.

A 33 anni ha un fisico e una vitalità paragonabile a quella di un ragazzo di 18 anni, i medici concludono che Bruce Lee aveva sofferto del “Grande Male“

L’epilessia è una malattia caratterizzata da crisi convulsive con perdita di conoscenza, allucinazioni sensoriali o turbe psichiche, che corrisponde allo scarico funzionale di un gruppo di cellule nervose del cervello.

Si manifesta in tre quadri clinici diversi: Grande Male, Piccolo Male ed Epilessia Parziale.

Il Grande Male è caratterizzato da crisi convulsive generalizzate insorte all’improvviso, senza preavviso. Il malato di solito, grida e cade, la crisi si sviluppa in tre fasi :

  • Fase tonica (il corpo si irrigidisce, gli occhi si socchiudono, si serrano le mandibole);
  • Fase clonica (violenti movimenti agitano il corpo e la testa in tutti i modi);
  • Fase risolutiva (coma profondo, che scompare in un quarto d’ora o meno), il malato non ricorda nulla.

Durante le crisi sono frequenti il morso alla lingua e l’incontinenza degli sfinteri, con la conseguente uscita di urina, per combattere questa malattia, il trattamento normale consiste nel prescrivere una droga che calma l’attività cerebrale.

Questo Edema è caratterizzato da un’infiammazione anormale, dovuta all’infiltrazione di siero nella cavità cerebrale, sotto la pelle, che provoca alterazioni morfologiche e funzionali .

Può essere il risultato di un’ipertensione capillare, di un ostacolo nei (vasi) linfatici o di un aumento della permeabilità capillare.

Nel caso del “ Piccolo Drago” non si trova niente di anormale nel suo organismo, anzi il dott. David Rersbord rimane sorpreso dal fisico di Bruce Lee.

A 33 anni ha un fisico e una vitalità paragonabile a quella di un ragazzo di 18 anni.


I medici concludono che Bruce Lee aveva sofferto del “Grande Male“ (Epilessia)

L’epilessia è una malattia caratterizzata da crisi convulsive con perdita di conoscenza, allucinazioni sensoriali o turbe psichiche, che corrisponde allo scarico funzionale di un gruppo di cellule nervose del cervello.

Si manifesta in tre quadri clinici diversi: Grande Male, Piccolo Male ed Epilessia Parziale. Il Grande Male è caratterizzato da crisi convulsive generalizzate insorte all’improvviso, senza preavviso. Il malato di solito, grida e cade, la crisi si sviluppa in tre fasi :

  • Fase tonica (il corpo si irrigidisce, gli occhi si socchiudono, si serrano le mandibole);
  • Fase clonica (violenti movimenti agitano il corpo e la testa in tutti i modi );
  • Fase risolutiva (coma profondo, che scompare in un quarto d’ora o meno), il malato non ricorda nulla.

Durante le crisi sono frequenti il morso alla lingua e l’incontinenza degli sfinteri, con la conseguente uscita di urina, per combattere questa malattia, il trattamento normale consiste nel prescrivere una droga che calma l’attività cerebrale.

È importante rilevare che nessuno dei suoi familiari soffrì mai di epilessia

A Bruce Lee fu prescritto Dilantino, è importante rilevare che nessuno dei suoi familiari soffrì mai di epilessia, neanche nella sua forma più benigna e nemmeno lui ne soffrì.

Attacchi simili a quelli provocati dall’epilessia possono essere causati dalla mancanza di zucchero o di ossigeno nel sangue, dall’uremia, da lesioni cerebrali che tardano a manifestarsi o da meningiti.

L’epilessia non mostra mai questi precedenti, semplicemente arriva e, anche se apparentemente è il risultato di qualcosa che va male nella chimica del cervello, non se ne conosce il motivo.

Dopo il controllo non si conoscono le cause di tale episodio clinico, alla fine di maggio la famiglia Lee ritorna ad Hong Kong, Bruce Lee torna a lavoro.

Il 20 luglio, alla 13,00 Linda deve andare a fare shopping, più tardi si accorda per mangiare con un’amica, dà un bacio a Bruce per salutarlo.

Questo le comunica che avrebbe dovuto vedersi con Raymond Chow per parlare del progetto del film “L’ultimo combattimento di Chen“ , le dice che probabilmente non sarebbe tornato per cena.

Raymond Chow venne a casa verso le 14,00 e lavorò con Bruce Lee fino alle 16,00, poi andarono a casa di Betty Ting Pei, che avrebbe avuto un ruolo importante nel film” (Linda Lee) .

Poi, i due  vanno a casa dell’attrice, poco tempo dopo Raymond Chow se ne va, alla sera hanno entrambi un appuntamento in un ristorante con l’attore Gorge Lazenby, secondo il portinaio dell’edificio di Betty Ting Pei, arrivano verso le 15:00 e Raymond Chow se ne sarebbe andato approssimativamente un’ora dopo.

Quando termina il suo turno, verso le 20:00, non vede uscire Bruce Lee

Secondo le dichiarazioni dell’attrice,  stavano parlando del film quando Bruce Lee comincia a sentirsi male, Betty Ting Pei gli offre Equagesic, un noto anegelsico che prendono migliaia di cinesi senza ricetta, qualcosa di simile all’aspirina in Occidente, e gli dice di distendersi un po’ sul letto.

Secondo una versione, verso le 21,30 Raymond Chow telefona dal ristorante, ma Betty Ting Pei gli dice che stava ancora dormendo, dopo un po Betty gli telefona dicendo che aveva tentato di svegliarlo e che gli sembrava privo di conoscenza. Chow decide di tornare all’appartamento, sono ancora recenti i fatti del 10 maggio, li trova Bruce Lee incosciente, quindi chiamano d’urgenza un dottore.

Esiste un’altra versione nel ristorante Chow riceve una chiamata da Betty Ting Pei che aveva tentato di svegliare Bruce Lee senza riuscirci, Chow, allarmato, si dirige all’appartamento dell’attrice.

In quel periodo Bruce e Betty si vedono molto spesso e già iniziavano a circolare certe voci di una possibile relazione tra di loro

Raymond Chow vuole evitare lo scandalo a ogni costo, quando arriva all’appartamento tenta di svegliare Bruce Lee, ma questi non reagisce, allora Betty chiama il dottor Eugene Chu, suo medico di famiglia.

Lo trovai sdraiato a letto, sembrava che stesse dormendo, gli feci una visita veloce, aveva le pupille molto dilatate, sembrava che il cuore non battesse, tentai di rianimarlo per almeno dieci minuti,vedendo che non reagiva, chiamai un’ambulanza. All’inizio non diedi importanza al  tempo che passava, non potevo immaginare una situazione così critica. Quando fu trasferito all’ospedale Regina Elisabetta, alle 22,30, i medici tentarono inutilmente di farlo uscire dal coma con ossigeno e massaggi cardiaci “ (Dott. Eugene Chu)

Raymond Chow chiama Linda Lee per comunicarle quello che è successo : ”mi allarmai immediatamente, erano ancora freschi nella mia memoria i fatti del 10 maggio“ . Subito si dirige direttamente all’ospedale, i due si incontrano nella sala d’attesa.

Alle 23,30 i medici danno loro la notizia: “È morto”

Pochi minuti dopo la notizia circola per le strade. Ancora oggi si mescolano diverse teorie, tutte di rimprovero verso le persone che furono con Bruce Lee nei suoi ultimi minuti di vita. Se Betty Ting Pei  avesse chiamato direttamente il dottore, forse sarebbe ancora vivo, il dottore Eugene Chu mandò l’attore al migliore ospedale, ma non al più vicino, si perse tempo prezioso .

Il fatto è che Bruce Lee morì e non ha importanza “quello che poteva essere fatto,ma non si fece“, quello che è successo è passato e non esiste la possibilità di cambiarlo.

Il Re delle Arti Marziali è morto

La notizia si accese come un rigoletto di polvere da sparo, “Il re delle Arti Marziali è morto“ Bruce Lee aveva cambiato l’immagine del popolo cinese nel mondo, era una celebrità in tutto il sud-est asiatico, quindi non fu strano che suscitasse tante aspettative tra i giornalisti  e che tutti tentassero di ricavare più informazioni possibili.

Note


Capire la rabbia: Consigli utili per ogni evenienza!

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Chiunque può arrabbiarsi: questo è facile, ma arrabbiarsi con la persona giusta, nella misura giusta, al momento giusto e nel modo giusto, questo non è nelle possibilità di chiunque e non è facile

Aristotele

La rabbia è una emozione tipica, considerata fondamentale da tutte le teorie psicologiche poiché per essa è possibile identificare una specifica origine funzionale, degli antecedenti caratteristici, delle manifestazioni espressive e delle modificazioni fisiologiche costanti, delle prevedibili tendenze all’azione.

Essendo un’emozione primitiva, insieme alla gioia e al dolore, essa può essere osservata sia nei bambini molto piccoli che in specie animali diverse.

Essa è inoltre l’emozione la cui manifestazione viene maggiormente inibita dalla cultura, dalle società attuali

La rabbia fa parte della triade delle ostilità insieme al disgusto ed al disprezzo e ne rappresenta il fulcro e l’emozione di base.

Tali sentimenti si presentano spesso in combinazione e pur avendo origini, vissuti e conseguenze diverse, risulta difficile identificare l’emozione che predomina sulle altre.

Moltissimi risultano essere i termini linguistici che si riferiscono a questa reazione emotiva, collera, esasperazione, furore ed ira, e rappresentano tutti lo stato emotivo intenso della rabbia, altri invece esprimono lo stesso sentimento ma di intensità minore, come irritazione, fastidio, impazienza.

Per la maggior parte delle teorie la rabbia rappresenta la tipica reazione alla frustrazione e alla costrizione sia fisica che psicologica

Pur rappresentandone i denominatori comuni, la costrizione e la frustrazione da sole non costituiscono le condizioni sufficienti e neppure necessarie perché si origini il sentimento della rabbia.

La relazione casuale che lega la frustrazione alla rabbia non è affatto semplice.

Altri fattori sembrano implicati affinché si origini l’emozione della rabbia, quali la responsabilità e la consapevolezza che si attribuisce alla persona/cosa che induce frustrazione o costrizione sembrano altri fattori importanti.

Ancor più delle circostanze concrete del danno, quello che più pesa nell’attivare una emozione di rabbia sembra cioè essere la volontà che si attribuisce all’altro di ferire e l’eventuale possibilità di evitare l’evento o situazione frustrante.

Insomma ci si arrabbia quando qualcosa o qualcuno si oppone alla realizzazione di un nostro bisogno, soprattutto quando viene percepita l’intenzionalità di ostacolare l’appagamento.

L’emozione della rabbia può essere quindi definita come la reazione che consegue ad una precisa sequenza di eventi:

  • Stato di bisogno;
  • Oggetto (vivente o non vivente) che si oppone alla realizzazione di tale bisogno;
  • Attribuzione a tale oggetto dell’intenzionalità di opporsi;
  • Assenza di paura verso l’oggetto frustrante;
  • Forte intenzione di attaccare, aggredire l’oggetto frustrante;
  • Azione di aggressione che si realizza mediante l’attacco.

Questo avviene in natura, anche se l’evoluzione sembra aver plasmato forti segnali che inducono la paura e di conseguenza la fuga, impedendo così l’aggressione dell’avversario.

Nella specie umana si assiste non solo ad una inibizione della tendenza all’azione di aggressione attacco, ma addirittura al mascheramento dei segnali della rabbia verso l’oggetto frustrante

Nella specie umana inoltre la cultura e le regole sociali a volte impediscono di dirigere la manifestazione dell’azione direttamente verso l’agente che scatena la rabbia.

Tre possono quindi essere i fondamentali destinatari finali della nostra rabbia:

  • Oggetto che provoca la frustrazione;
  • Un oggetto diverso rispetto a quello che provoca la frustrazione (spostamento dell’obiettivo originale);
  • Autolesionismo ed auto aggressione (la rabbia quindi può infine essere diretta verso sé stessi).

Per quanto siano estremamente forti le pressioni contro la manifestazione della rabbia, essa possiede una tipica espressione, ben riconoscibile in tutte le culture studiate:

  • Aggrottaménto violento della fronte e delle sopracciglia;
  • Scoprire e digrignare i denti;
  • Tutta la muscolatura del corpo può estendersi fino all’immobilità;
  • La paura di perdere il controllo;
  • L’irrigidimento della muscolatura;
  • La voce si fa più intensa, il tono sibilante, stridulo e minaccioso;
  • L’organismo si prepara all’azione, all’attacco e all’aggressione attraverso una forte attivazione del SNA Simpatico, ossia accelerazione del battito cardiaco, aumento della pressione arteriosa e dell’irrorazione dei vasi sanguigni periferici, aumento della tensione muscolare e della sudorazione.

Le modificazioni psicofisiche che si manifestano attraverso la potente impulsività e la forte propensione all’agire con modalità aggressive sono funzionali alla rimozione dell’oggetto frustrante

La rabbia è sicuramente uno stato emotivo che aumenta nell’organismo il propellente energetico utilizzabile per passare alle vie di fatto, siano queste azioni oppure solo espressioni verbali.

La rimozione dell’ostacolo che si oppone alla realizzazione del bisogno può avvenire sia attraverso l’induzione della paura e la conseguente fuga, sia mediante un violento attacco.

Le numerose ricerche compiute sui comportamenti di specie diverse dall’uomo hanno dimostrato che l’ira e le conseguenti manifestazioni aggressive sono determinate da motivi direttamente o indirettamente legati alla sopravvivenza dell’individuo e delle specie.

Gli animali spesso attaccano perché qualcosa li spaventa oppure perché vengono aggrediti da predatori, per avere la meglio sul rivale sessuale, per cacciare un intruso dal territorio o per difendere la propria prole.

Negli uomini invece, i motivi alla base di un attacco di rabbia riguardano maggiormente la frustrazione di attività che erano connesse con l’immagine e la realizzazione di sé. Lo scopo in questo caso sembra più rivolto a modificare un comportamento che non si ritiene adeguato.

Riconoscere la rabbia

Il punto importante da comprendere a proposito della rabbia è che, nonostante venga spesso etichettata come emozione negativa e da evitare in noi come negli altri.

Di fatto diventa negativa e soprattutto distruttiva quando non viene riconosciuta e usata al momento in cui emerge, ma viene repressa con conseguenze dannose non solo per se stessi ma anche per gli altri.

Il problema è che fin dalla tenera età ci viene insegnato che è cattivo e sbagliato esprimere la collera, ancora oggi questa emozione viene considerata inopportuna, irragionevole, associata all’aggressività ed al capriccio.

La gente è spesso spaventata dalla propria rabbia, teme che la spinga a compiere qualche azione dannosa e, di conseguenza, ci si rifiuta di prestare attenzione alla collera degli altri e si esita ad esprimere la propria.

È importante quindi considerare che se non ci siamo mai concessi di esprimere la rabbia probabilmente ne abbiamo accumulato una montagna dentro di noi.

Reprimendola, è più probabile che la rabbia esploda in momenti inopportuni e soprattutto verso persone o situazioni che hanno poco a che fare con la causa originale della rabbia che ci ribolle dentro, ed è anche più probabile che ce la prendiamo con chi crediamo sia più debole di noi, non fosse altro che per avere un minimo di senso di potere.

Un atteggiamento questo, tipico delle bestie. Temere il più forte e sopraffare il più debole, quando invece l’essere umano, a differenza degli animali, può dominare i suoi istinti.

La rabbia repressa si ritorce contro noi stessi con attacchi depressivi e alimenta uno stato di inferiorità

Inoltre quando la mente non riesce più a gestire i conflitti, il corpo ne soffre, numerose affezioni psicosomatiche come mal di schiena, ulcere, psoriasi, possono essere legate al soffocamento della rabbia.

È fondamentale dunque per la nostra salute psicofisica imparare ad esprimere la collera in maniera costruttiva ed appropriata. Sono numerosi gli episodi, per esempio, negli sport da combattimento.

Le provocazioni dell’avversario anche in maniera pesante affinché la rabbia venga fuori e si perda l’autocontrollo necessario per poter gestire il combattimento.

Senza la rabbia si è privi di protezione

Senza la rabbia siamo alla mercé delle imprevedibili reazioni altrui. Per noi e per gli altri, la rabbia usata costruttivamente aiuta a sviluppare fiducia in se stessi in quanto non è necessario che monti fino ad esplodere per esprimerla.

È importante riconoscerla nel momento in cui emerge per quello che è: un meccanismo di protezione che ci segnala che c’è qualcosa che non va, una reazione di insoddisfazione intensa, suscitata generalmente da una frustrazione che ci riguarda e che giudichiamo inaccettabile.

Dunque la rabbia, comunque venga espressa in modo esplosivo o in forma repressa, agisce come un segnale d’allarme; la nostra rabbia ci mette a conoscenza del fatto che in quel momento ci stanno facendo del male, che i nostri diritti vengono violati, che i nostri bisogni e i nostri desideri non sono soddisfatti.

Imparare a manifestare la propria rabbia significa conoscere i propri reali bisogni e intrattenere relazioni più autentiche con le persone che ci circondano.

Come esprimere la rabbia

Riabilitare la rabbia non significa tuttavia lasciarsi andare in comportamenti irosi. Non c’è bisogno di urlare o di arrivare alle mani per esprimere la propria irritazione, l’arma migliore è la parola, è bene però utilizzarla consapevolmente per esprimere i veri motivi delle nostre insoddisfazioni.

Dietro la collera si nasconde sempre una sofferenza, sempre più ci si ritrova ad affrontare situazioni molto pesanti (licenziamenti, costo della vita, paura di non farcela, divergenze con il proprio coniuge, vessazioni etc…), per cui basta un piccolo e futile pretesto per far scatenare la rabbia che ci portiamo dentro.

Adirarsi ad ogni costo e contro chiunque è un modo per sottrarre energia alla disperazione e non guardare in faccia il dolore, perché il proprio malcontento sia preso seriamente in considerazione è bene esprimerlo con la massima calma. Per fare in modo che questa emozione diventi costruttiva:

Placare la rabbia parlandone con un amico

Per rendere possibile un approccio disteso alla discussione con la persona che ci ha fatto arrabbiare può essere utile scaricare preventivamente le proprie tensioni parlando ad esempio con un amico per raccontargli l’accaduto.

Questo serve a far passare il primo moto di rabbia, quello più aggressivo, senza contare che una terza persona potrebbe suggerirci un modo diverso di guardare le cose.

Chiarirsi le idee

Avere un’idea precisa di cosa si sente dentro e di cosa ci si aspetta possa accadere dopo una discussione ci aiuta a mettere a fuoco le cose da dire, gli argomenti da mettere in campo e ci da una mano a controllare le cose in modo che l’emozione non prenda il sopravvento facendoci sfuggire il controllo della situazione. Per acquisire chiarezza, può essere utile porsi delle domande:

  • Che cosa ha scatenato la nostra rabbia?
  • Il nostro interlocutore ci ha nuociuto intenzionalmente?
  • Siamo sicuri di non esserci sbagliati sulle sue intenzioni?
  • Non abbiamo mostrato eccessiva suscettibilità?
  • La situazione merita che scateni la mia rabbia?
  • Abbiamo cercato di sdrammatizzare?
  • Abbiamo capito bene?
  • Dopo aver scatenato la nostra rabbia che risultato ci aspettiamo?

Esprimere le proprie opinioni

è necessario farlo dopo aver placato la propria rabbia.

L’atteggiamento da adottare è di tipo assertivo, evitando dunque di scadere in eccessi di alcun tipo, quali accuse o ingiurie.

Lo scopo è infatti quello di ristabilire un equilibrio e non di schiacciare l’interlocutore, lo psicoterapeuta americano Thomas Gordon ha elaborato il sistema dei cosiddetti “messaggi-io“ , che si basa sul principio di parlare di se in questo modo: definendo con precisione ciò che ci ha disturbato (quando tu …), raccontando le nostre emozioni (mi sento…), condividendo le nostre aspettative (perché io …), esprimendo i nostri bisogni attuali e le motivazioni (e io ti chiedo di…in modo da…). il beneficio di esprimere la rabbia va oltre il sollievo di togliersi un peso, significa ridefinire le relazioni con se stessi e con gli altri.

Esprimere apertamente la rabbia

è importante permettere a se stessi di avvertire completamente la rabbia, creando un posto sicuro per poterla esprimere, da soli, o con un amico fidato o con un esperto, se siamo soli in un posto sicuro, permettiamoci di parlare ad alta voce, di vaneggiare, di dare calci o urlare, di lanciare qualcosa.

Dopo aver fatto ciò in un ambiente sicuro, (per un periodo potremmo aver bisogno di farlo regolarmente) non avremo più paura di compiere un atto distruttivo e saremo capaci di affrontare in modo più efficace le situazioni che ci si presenteranno davanti.

Esistono delle tecniche per il controllo della rabbia, in America i manuali si sprecano, Robert Puff ad esempio è uno psicologo che ha lavorato diversi anni sulla gestione della rabbia ed ha elencato diverse tecniche di controllo della stessa, ma personalmente penso che il controllo della collera è soggettivo, c’ è un aspetto che secondo me è molto importante, le conseguenze di un’eventuale reazione rabbiosa ad una provocazione, non bisogna mai dimenticare ciò che la legge ci impone, onde non incorrere in guai che potrebbero toglierci il sonno e non solo.

Note


[ARTI MARZIALI] Karate Buyo, le danze marziali di Hiroko Ogido

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I parallelismi tra il Karate e alcune danze tradizionali di Okinawa, come accadde nell’antico Kobudo, servirono allo scopo della perpetuazione delle arti in determinate epoche, frutto della mescolanza di quelle danze con il Karate e con il Kobudo.

L’esperta Hiroko Ogido diede vita in seguito a quello che si chiamò Karate Buyo

Molti esperti sono giunti a capire, naturalmente, che le danze tradizionali di Okinawa contengono tecniche di Karate, oltre ad un ovvio utilizzo di armi come il bo, nunchaku, sai, eku, tonfa.

È un tema molto interessante e che, senza dubbio, fa parte della cultura contenuta nelle tradizionali Arti Marziali giapponesi, quella cultura che ancora oggi si conserva.

La maggiore rappresentante attuale di questa mescolanza di Karate e Danza chiamata Karate Buyo è senza dubbio Hiroko Ogido, una veterana allieva di Karate e Kobudo del Gran Maestro Shinpo Matayashi, forse molti conoscono Hiroko attraverso il documentario del National Geographic Channel, dove Hiroko Sensei appariva mostrando la sua Arte di Karate e Danza.

Il fatto che Hiroko Sensei fosse stata allieva del Maestro Masauoshi e che dalla morte di questi nel 1997, si fosse incaricata lei del Dojo del Maestro, gli dette la possibilità di coltivare e perfezionare quest’arte.

Hiroko Ogido è una donna matura molto dinamica, si muove molto ed è molto interessata alla divulgazione di quest’Arte, la sua missione ideale è aiutare il più debole e che il suo Karate Buyo deve migliorare il carattere dei suoi praticanti, enfatizza il fatto che non è uno sport e che si tratta di preservare l’arte tradizionale.

Racconta che le danze antiche tradizionali di Okinawa si chiamano Odoro, la loro fusione con il Karate e il Kobudo forma la nuova arte da lei creata

In realtà quest’arte ha una storia recente , poiché non nasce in quanto tale prima degli anni 50  anche se, logicamente, le sue origini risalgono a secoli fa.

La bellezza dell’arte di Ogido Sensei risiede nelle emozioni contenute che in modo sottile ed elegante affiorano attraverso i movimenti di Danza e Karate , il potere dei suoi movimenti, non esenti del Kime del karateka, è forse progettato specificatamente per le donne, manifestando una grazia particolare attraverso la danza.

È difficile che le donne penetrino in un mondo di uomini, ma Ogido rifiuta di pensare che sia perché non sono all’altezza, poiché altrimenti sarebbero perdute, non bisogna nemmeno dimenticare che questo è il Giappone e che qui, storicamente, la donna è stata rispettata in quanto tale, ma attribuendole compiti molto concreti e molto diversi da quelli dell’uomo, ma forse le differenze sono da apprezzare in alcuni casi, poiché la grazia di una donna è degna di essere vista, non dimentichiamo che nell’antichità gli originali kata potevano benissimo essere danze in onore degli dei.

La mitologia giapponese ci insegna che quando la dea Amaterasu si rifugiò nell’antro della Grotta Celeste lasciando il mondo nella penombra , le danze che fecero i paesani all’ingresso, risvegliarono la sua curiosità e la fecero uscire

Danze che, a quanto pare, avevano qualcosa di simile al kata Rohai del Karate, ma questa è un’altra storia, la cosa certa è che la danza Okinawese, e la sua in parte fusione con il Karate, ha fatto parte della cultura Okinawese da sempre, cosa che la rende un interessante argomento di conoscenza, storicamente, come il Kobudo, permise di utilizzare in allenamento come armi gli utensili da lavoro della vita quotidiana, rendendo così l’arte marziale una pratica segreta, clandestina, dissimulata, in modo simile, anche se con le sue evidenti differenze, anche la danza apportava questa possibilità alla Capoeira Brasiliana.

Nel documento della BBC inglese che a metà degli anni 80 mostrava la vita di Hiroko Ogido offre sul tatami ogni tipo di spiegazione su quello che fa, per prima cosa si osserva kata di bo realizzati da una bambina di appena 5 anni, poi Ogido fa vedere varie dimostrazioni di Karate Buyo.

Le danze okinawesi, come se volessero mostrare il significato del Karate, sono dure e morbide allo stesso tempo

Definendo così quasi l’originale Goju Ryu (duro e flessibile), le posizioni, gli spostamenti, la coordinazione con i movimenti di mano, la posizione della schiena, la distribuzione del peso ecc… sono attentamente vigilati in entrambe le arti.

Ma ci sono altre curiosità di kata di Karate che provengono dalle danze okinawesi, alcuni dei suoi caratteristici kamae (guardie) e varie forme speciali di spostamento sono alcune di queste, in stili okinawesi di karate, spostamenti di kata come per esempio Seishan, si realizzano iniziandoli sui bordi esterni dei piedi e non piantando contemporaneamente tutta la loro superficie.

Questa forma caratteristica che negli stili giapponesi in seguito si è in parte perduta (anche se alcuni la mantengono nel nostro Wado Ryu come l’ha insegnata Ohtsuka Sensei), proviene nella realtà dalla danza e si chiama Sansoku, la speciale collocazione delle caviglie durante lo spostamento, apporta una posizione più favorevole all’articolazione e le da un’azione furtiva.

Si dice che Funakoshi Yoshitaka e altri suoi contemporanei si allenassero in modo così intenso negli spostamenti del Karate (con potenti pestoni a volte fuori luogo) che Gichin dovette far loro vedere che non si trattava di rompere le tavole del tatami ma, al contrario, di essere capaci di spostarsi sopra la carta bagnata senza romperla.

Il dualismo forza e morbidezza, potenza e leggerezza, è sempre esistito nella tecnica del Karate, facendo acquistare alla danza okinawese importanza vitale

Apportando la sottigliezza alla rudezza teorica del Karate, l’eleganza e il controllo necessari per elevare la tecnica alla categoria di arte, facendo un confronto con l’arte della tauromachia, potremmo dire che, così come in questa, non si tratta unicamente di eludere gli attacchi del toro, ma di farlo con eleganza, tecnica e cultura, anche la tecnica del Karate è molto di più di un semplice scambio di legnate.

Le danze di Hiroko Sensei includono non solo tecniche a mani nude ma anche con armi come nunchaku, sai, bo, i vistosi abiti che Ogido indossa nelle sue dimostrazioni, nel più puro stile okinawese, non tralasciano i tradizionali gi e hakama del Karate e del Kobudo, ma la forza di Ogido Sensei non la allontana dalla simpatia che sprigiona.

Note


Le 7 REGOLE del BUSHIDO (武士道) – VIRTÙ DEI SAMURAI

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Pensare che tutto il mondo può essere l’avversario quando esci da casa, immaginare che molti avversari ti stanno aspettando, oggi è un atteggiamento ossessivo e preoccupante, ma ai tempi dei Samurai era più facile trovare i nemici a ogni piè sospinto.

Oggi non significa uscire di casa negativamente pensando ossessivamente che tutti sono nemici, la realtà di oggi è sicuramente peggiorata e i giornali e vari episodi ti fanno pensare che non posso andare in giro completamente spensierato o con la testa tra le nuvole.

L’agguato potrebbe essere, come si dice sempre, dietro l’angolo

Alcuni Samurai erano così attenti e vigili che si accorgevano della presenza di una persona che si nascondeva per attaccarli, alcuni percepivano l’energia negativa di colui che voleva ucciderlo, con questo intuito anticipavano l’avversario e salvavano la vita.

Oggigiorno non c’è questa preparazione e, anche se leggiamo tanti soprusi, non è così allarmante girare per le strade, ovviamente dipende dall’ora e dalle zone delle grandi città soprattutto.

Un allenamento comunque che ci permetta di essere qui e ora e concentrati su cosa succede intorno a noi, non è da sottovalutare.

Quando un uomo varca la porta di casa, si può trovare di fronte a un milione di nemici, potrebbe diventare noioso ripetere sempre lo stesso concetto, ma non dimentichiamo che i nemici non sempre sono visibili, tangibili, prevedibili, ci sono nemici interiori che sono subdoli, macchinosi, pazienti e silenziosi.

Per affrontarli bisogna essere pronti, allenati, concentrati, un allenamento costante, anche per chi pratica discipline da difesa è importante per sconfiggere il nemico più oscuro: LA PAURA.

Se non ci si abitua a essere attaccati, a sentire la spinta,lo strattone, le urla o quant’altro possa succedere durante un alterco, quando succederà rimarrà impietrito dalla paura, che blocca ogni movimento e che blocca anche l’adrenalina necessaria per superare l’aggressione.

Questo principio è riportato anche in un antico proverbio: ”Quando un uomo oltrepassa la soglia della propria abitazione ha di fronte sette nemici“ (dal punto di vista cristiano potrebbero essere: orgoglio, invidia, avidità, rabbia, pigrizia, ingordigia e lussuria).

I nemici non sono visibili, tangibili e facili da attaccare e distruggere, molti sono invisibili, nascosti e indifferenti alla nostra attenzione. Il 7 è un numero sacro.


LE 7 REGOLE DEL BUSHIDO – VIRTÙ DEI SAMURAI:

Gi -onestà e giustizia – una sola via:

Onestà nei rapporti con gli altri,credere nella giustizia che proviene non dalle altre persone ma da se stessi, il vero Samurai non ha incertezze sulla questione dell’onestà e della giustizia, vi è solo ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.

Yu -eroico coraggio:

Elevarsi al di sopra delle masse che hanno paura di agire,nascondersi come una tartaruga nel guscio non è vivere, un Samurai deve possedere un eroico coraggio, ciò è assolutamente rischioso e pericoloso, ma significa vivere in modo completo, pieno, meraviglioso, l’eroico coraggio non è cieco ma intelligente e forte.

Jin- compassione:

l’intenso addestramento rende il samurai svelto e forte, è diverso dagli altri, egli acquisisce un potere che deve essere utilizzato per il bene comune.

Possiede compassione, coglie ogni opportunità di essere d’aiuto ai propri simili e se l’opportunità non si presenta egli fa di tutto per trovarne una.

Rei- gentile cortesia-comportamento etico morale:

I Samurai non hanno motivi per comportarsi in maniera crudele, non hanno bisogno di mostrare la propria forza, un samurai è gentile anche con i nemici senza tale dimostrazione di rispetto esteriore un uomo è poco più di un animale.

Il samurai è rispettato non solo per la sua forza in battaglia, ma anche per come interagisce con gli altri uomini.

Makoto o shin:

Completa sincerità: quando un samurai esprime l’intenzione di compiere un’azione, questa è praticamente già compiuta, nulla gli impedirà di portare a termine l’azione espressa.

Egli non ha bisogno né di “dare la parola“ né di promettere, parlare e agire sono la stessa cosa.

Meyo – onore:

Vi è solo un giudice dell’onore del samurai: lui stesso.

Le decisioni che prendi e le azioni che ne conseguono sono un riflesso di ciò che sei in realtà, non puoi nasconderti da te stesso.

Chugi-dovere e lealtà:

Per il samurai compiere un’azione o esprimere qualcosa equivale a diventarne proprietario, egli ne assume la piena responsabilità, anche per ciò che ne consegue.

Il samurai è immensamente leale verso coloro di cui è responsabile.


Il 7 ricorre nella nostra vita

  • 7 sono le note,
  • 7 sono i mari secondo l’antica suddivisione dei greci (Mar Egeo, Mar Nero, Mar di Marmara, Mar Ionio, Mar Rosso, Mar Tirreno, Mar Mediterraneo Orientale)
  •  7 le costellazioni (Alfa, Beta, Gamma, delta, Ipsilon, Zeta, Età)
  •  7 sono le virtù (3 teologali: fede, speranza, carità; e 4 cardinali: giustizia, temperanza, prudenza e fortezza)
  • 7 sono i peccati capitali (superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira, accidia)
  • 7 sono i colori dell’arcobaleno (rosso, arancione, giallo, verde, azzurro, indaco e violetto)
  • 7  sono i colli di Roma (Aventino, Campidoglio, Celio, Esquilino, Palatino, Quirinale, Vicinale).
  • 7 è il numero del perdono (dovrai perdonare settanta volte sette)
  • 7 sono i cieli dell’antichità, ciascuno corrispondente ad un pianeta (Sole, Luna, Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno)
  • 7 sono i doni dello Spirito Santo nel cristianesimo (sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà e timor di Dio)
  • 7 sono i sigilli la cui rottura annuncerà la fine del mondo, seguita dal suono di 7 trombe suonate da 7 angeli, quindi dai 7 portenti e infine dal versamento delle 7 coppe dell’ira di Dio (da Giovanni, Apocalisse).
  • 7 sono i chakra (Muladhara, Svadisthana, Manipura, Anatha, Vishudda, Anja Sahasrara).

Note


[STORIA ANTICA] L’arte del combattimento: un cenno di storia

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Gladiatura e gladiatori: l’arena dell’arte.

  “D. Iunius Brutus munus gladiatorium in honorem defuncti patris primus edit“

Munus è il termine latino che, come scrive Tertulliano nel suo trattato sugli spettacoli: “È stato chiamato munus dall’impegno, che ha il medesimo nome con questo spettacolo gli antichi ritenevano di assolvere un obbligo nei confronti dei defunti“ ed è forse il nome con quale origine vennero indicati in origine i primi eventi aperti al pubblico, che divennero in seguito un vero e proprio fenomeno gladiatorio.

Le recenti scoperte archeologiche (tombe di Paestum) hanno permesso di collocare l’origine funeraria degli spettacoli gladiatori in una situazione storica/geografica attribuibile ad area “osco-sannitica“ anche se ancora non è chiaro se i romani importarono i giochi dalla Campania oppure dai contatti con gli Etruschi.

La collocazione in ambito funerario e celebrativo degli spettacoli a Roma è praticamente certa fin dal loro inizio, dallo storico Tito Livio apprendiamo infatti che nel 264 a.C.

Durante il consolato di Appio Claudio e Quinto Fulvio, gladiatori Etruschi dettero vita a combattimenti per le cerimonie sacre dei funerali di Decimo Giunio, come è riportato in questo passo di Valerio Massimo: “gladiatorum munus primum Romae datum est in foro Boario, App. Claudio, Q. Fulvio consulibus, daederunt Marcus et Decimus, fili Bruti Perae, funebri memoria patris cineris honorando“ .

Diverse iscrizioni epigrafiche confermano il legame, almeno iniziale, tra i giochi e le solenni cerimonie funerarie, una testimonianza la troviamo nelle epistole del II secolo di Plinio il giovane che commenta le onoranze funebri di un notabile veronese fatte in onore della moglie defunta: “Cuius (uxsoris) memoriae aut opus aliquod aut spectaculum atque hoc potissimum, quod maxime funeri debebatur“

Non sfugge certo la nemesi mediterranea di queste attività che ritroviamo nel mondo greco ed etrusco e che univano gli aspetti ludico/guerrieri e celebrazioni votive/sacrali, il progressivo distacco da questa iniziale condizione sacrale verso le forme di spettacolo pubblico (gladiatoria) sarà raccontato da alcuni cronisti come un fenomeno di tipo esclusivamente idolatrico.

Tertulliano, quattrocento anni dopo l’avvento dei munera a Roma, paragona i giochi di gladiatura ad omicidi e sottolinea come questi spettacoli non siano per i cristiani, teorizzando addirittura che si trattasse di sacrifici umani.

Malgrado le degenerazioni degli spettacoli dei gladiatori operate da alcuni imperatori (ad esempio Commodoro figliastro di Marco Aurelio) e le invettive di Tertulliano, i giochi non si fermarono, l’imperatore Traiano allestì uno spettacolo gladiatorio imponente durante il quale scesero nell’arena del Colosseo più di 10.000 gladiatori.

Niente era lasciato al caso, l’organizzazione era precisa e suddivisa per competenze

La parte amministrativa era affidata al personale “ratio a muneribus“, mentre i macchinari, i congegni e la coreografia dei giochi era competenza dei “ratio summi choragi“, dei costumi dei gladiatori e dei partecipanti erano incaricati gli “a veste gladiatoria venatoria“  e le caserme/scuole erano controllate dai “Procuratores familiarum gladiatoriarum“.

Tutto questo e l’enorme interesse popolare, fece dei giochi un potente strumento politico sociale ed economico, circolavano cifre enormi per la gestione dei giochi e spesso i sesterzi si sprecavano, la Gladiatura fu certamente l’aspetto più caratterizzante della visione marziale/sportiva durante l’impero romano, la figura dei “Procuratores familiarum gladiatoriarum“ è forse quella che meglio può far comprendere il fenomeno e l’estensione di quella che per molti era una vera e propria professione: il gladiatore.

Procuratores familiarum gladiatoriarum erano una vera e propria corporazione che controllava su mandato imperiale le numerose caserme sparse su buona parte dell’impero, la storia marziale europea deve molto a questa straordinaria diffusione della Gladiatura e caserme gladiatorie si trovano persino nei territori orientali.

Ma chi era il gladiatore?

Il gladiatore era quasi sempre un combattente professionista (gladiu, gladius,gladiatura), ma di là di questo non certo una figura definibile per semplice classe sociale, la condizione di molti era quella di prigionieri di guerra, altri invece erano schiavi, altri ancora potevano essere forzati alla scuola di combattimento e al circo in seguito ad una condanna.

Ma alla condizione sventurata dei primi si affiancava quella del tutto opposta che vedeva nelle file dei gladiatori i liberti (schiavi liberati) e diversi uomini liberi e di condizione e rango elevato come senatori e cavalieri, si hanno infatti notizie epigrafiche addirittura di un divieto scaturito da un senatoconsulto del 19 secolo d.C.

Dove si reiterava appunto ai senatori ed ai cavalieri un divieto a partecipare a tali attività, divieto emanato già nell’11 secolo d.C. Al quale sembra pochi si adeguarono, i gladiatori avevano un impresario, il lanista, che li raggruppava in gruppi detti familiae in un numero stabilito da norme precise.

I gladiatori non venivano mandati allo sbaraglio, ma apprendevano l’arte di combattere con le armi e disarmati in vere e proprie scuole.

Le leggi che regolavano l’istituzione delle familiae, dopo sanguinose rivolte la più famosa delle quali avvenne a Capua nel 73 a.C. comandata dallo schiavo gladiatore Spartaco, erano severe e fissavano un numero massimo di gladiatori per “compagnia“, i gladiatori non venivano mandati allo sbaraglio, come successe invece nelle degenerazioni in cui schiavi e cristiani erano messi a combattere con le belve fatte arrivare dalle province dell’ Africa, ma apprendevano l’arte di combattere con le armi e disarmati in vere e proprie scuole.

Nelle scuole di Gladiatura, l’Insegnante Magistro o Doctores secondo alcuni studiosi, si occupava della formazione tecnica delle singole specialità dette armaturae o nelle discipline minori quelle che potevano essere apprese per un uso polivalente non specialistico.

L’insegnamento era basato su istruzioni codificate, i dictata, veri e propri programmi tecnici e, secondo gli studiosi:

è probabile che esistessero anche dictata scritti, veri e propri trattati simili a quello che un fortunato ritrovamento ci ha messo a disposizione per la lotta del II secolo d.C.“

Il fenomeno della Gladiatura fu un aspetto importante della società romana che aveva fondato il prestigio e il potere sul culto della politica e della marzialità, della disciplina, delle armi e delle oratorie

I giochi furono insieme il contenitore per lo sfogo di pulsioni popolari, il terreno sempre fertile per mantenere una mentalità guerriera ed infine un modo per fare politica di consensi.

La Gladiatura e le sue vicende precede quello che più tardi saranno quei fenomeni collettivi che prenderanno a seconda dei contesti e delle classi sociali coinvolte, nomi diversi dai tornei, agli armeggiamenti, alle giostre, alle battagliole, oggi, se pensiamo credere di aver superato il passato o di avere, alla luce delle maggiori conquiste sociali e democratiche, sradicato ogni punto di contatto con queste forme e formule di società battagliera, e poi guardiamo il campo di calcio con le fazioni che si dividono e si contrappongono innalzando stendardi e bandiere ritualizzando in gesti e cori l’antico furor di confronto e della pugna.

Note


[COMBATTIMENTO] L’evoluzione storica del Jujitsu

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L’inizio della codificazione delle forme di lotta a mani nude, come il Chikara Kurabe (la prova di forza), o del Bu Jutsu (l’arte del combattimento), non ha in Giappone una data certa.

È evidente che il suo sviluppo fu, come purtroppo in ogni altra parte del mondo, legato all’accrescimento delle necessità belliche, sia d’offesa che di difesa, del popolo stesso.

Nel corso dei secoli si è avuta dunque un’evoluzione di queste arti di combattimento e un loro affinamento dal punto di vista tecnico, con un’interdipendenza molto forte e tipicamente orientale dall’aspetto etico, religioso e filosofico.

Questa molteplicità di nozioni tecniche e di regole di vita ha portato sin dall’origine ad una codificazione necessaria per poter essere tramandata nel tempo; nell’epoca feudale, per tutto il periodo del Medioevo giapponese, sino al decreto imperiale del 1876 che privava i Samurai del diritto di portare la katana e il Wakizashi.

La definizione del Jujitsu si attribuiva genericamente alla forma di combattimento a mani nude ed in alcuni casi con armi

Essa era praticata all’interno di una moltitudine di Ryu (le scuole di arti marziali) disseminate per il Giappone.

Le scuole di arti marziali studiavano e tramandavano dal fondatore del Ryu (il Shodai o Soke) e successivamente dal Maestro del Ryu (il Sensei).

Al discepolo migliore della scuola il Libro o Documento Segreto (il Densho) del Ryu, che racchiudeva le spiegazioni delle tecniche segrete di combattimento lasciate in eredità dagli antichi Bushi (i guerrieri).

Il contenuto di questo libro poteva essere reso noto dal Soke solo agli adepti della scuola, era gelosamente custodito dal clan, anche a costo della vita dei suoi appartenenti e aveva diversi livelli di divulgazione anche all’interno del Ryu stesso.

I discepoli più fidati potevano accedere agli Okuden (i segreti) più reconditi, mentre gli altri allievi avevano accesso all’Omote (la parte più semplice e superficiale delle nozioni).

Frequentemente il Juko Gashira era il figlio dello Shodai o del Sensei e prendeva in conseguenza di ciò il titolo di Waka Sensei (Giovane Maestro).

I metodi di combattimento dei vari Ryu erano molteplici e davano la possibilità ai seguaci della scuola di specializzarsi nelle tecniche di Toshunobu (difesa a mani nude con aggressore disarmato), in quelle di Bukinobu (difesa a mani nude con aggressore armato) o nel Bugei (l’arte del combattimento con le armi).

Vi erano anche ulteriori distinzioni all’interno di ogni Ryu e delle suddivisioni in branche dette Ha che generavano altri Cryugi (stili di pratica).

Ogni Ryu professava la sua invincibilità nel combattimento e non era raro che i vari clan si sfidassero in incontri detti Dojo Arashi (la tempesta che si abbatte dove si studia il metodo)

Tutti i praticanti di un Ryu si recavano presso un altro Ryu rivale con il loro Sensei e si battevano per saggiare l’efficacia del proprio stile, il Ryu sconfitto era così disonorato ed i suoi adepti lo abbandonavano per seguire quello del vincitore.

La codificazione più antica di una forma di combattimento in Giappone riguarda il Sumo, la tradizionale lotta legata ai riti dello Shinto (la religione priva di divinità superiori che venera i principi della natura come Il sole, la terra , la pietra, le piante etc), ma nell’epoca Kamakura (1115 – 1333) i Bushi rielaborarono delle tecniche di combattimento senza armi efficaci anche contro un’avversario che ne fosse stato provvisto, derivanti dall’antica arte del Kumi Uchi (tecnica del contatto, dell’afferrare per iniziare il combattimento) e dal Tai Jutsu (l’arte del corpo), di cui non di hanno notizie certe, che presero appunto la denominazione di Jujitsu.

In pratica il jujitsu serviva al Bushi o meglio al Samurai per giungere all’annientamento fisico dell’avversario e spesso alla sua morte senza l’uso delle armi

Questo metodo di combattimento si aggiungeva a quelli riguardanti le armi specifiche, tra cui il Ken Jutsu (l’arte della sciabola) che prese ad avere una parte predominante nell’addestramento dei Bushi e dei Samurai in partire dal X secolo.

Pur avendo come bagaglio tecnico il Kyuba no michi (l’arte del tiro con l’arco e dell’equitazione), i Ryusha nei vari Ryu avevano un addestramento specifico in qualche forma particolare di combattimento che veniva contraddistinto da varie denominazioni e traeva origine molto spesso dall’abilità del Soke in quello specifico stile.

Note


Ridi pagliaccio… ridi! Lo spettacolo deve continuare

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Continuare… nonostante tutto.

Mamma, perché quel pagliaccio piange mentre cerca di far ridere noi?”

Questo chiesi a mia madre quando avevo cinque anni e mi aveva portato al Circo Zanfretta a Carbonia.

Piange perché deve aver ricevuto una cattiva notizia, ma l’ordine è ridi pagliaccio…ridi, lo spettacolo deve continuare nonostante tutto“

Quelle parole mi rimasero come scolpite nella mente, mi chiedevo come si potesse continuare lo spettacolo mentre il cuore chiedeva di poter piangere e scappare via.

Questo ricordo comunque fu ed è il credo che ho sempre seguito nella mia vita lavorativa e sportiva.

Nel 1985 dopo due anni di preparazione, portai una mia atleta ai campionati Italiani di Karate, avevamo passato i due anni di lavoro sacrificando tante domeniche per dedicarci alla preparazione individuale.

Avevo sperimentato che nonostante la corazza che mi ero creato, mi affezionavo ad ogni allievo. Il lavorare, sudare e sacrificare assieme creava e crea un flusso che ci univa e tuttora ci unisce.

Arrivammo a Roma e vinse in titolo Italiano dopo ben cinque combattimenti. Una volta tornati a casa però non venne più in palestra, la contattai e mi disse queste testuali parole

Il mio ragazzo non vuole che continui perché se mi rompono il naso non mi vuole più“.

Piangendo mi disse che non sarebbe più venuta in palestra.

Un pezzo della mia corazza si ruppe e sentii che anche un pezzo di cuore se ne andava, fu difficile per me credere ancora in qualcuno che mi chiedeva di essere preparato per le gare, ma lo feci, iniziai a preparare altri ragazzi e una ragazza di 20 anni e 50 kg di peso.

Lavorammo sodo per diversi anni, facendo esperienza gareggiando in tornei promozionali, fino a che non venne il momento dei campionati Italiani.

Il Palalido a Roma era gremito, atleti e spettatori creavano un’atmosfera elettrizzante.

L’adrenalina era alta, quando salì sul tatami la mia atleta vi furono molte risate e fischi. I 50 kg creavano ilarità, ma quando vinse il primo combattimento vi furono più applausi che fischi, quando infine vinse, dopo cinque combattimenti il titolo Italiano, un boato scosse il palazzetto, gli applausi e le urla di incredulità del pubblico furono la gratifica per la ragazza, nonostante tutte le umiliazioni era stata caparbia e il risultato l’aveva premiata!

Maestro, devo partire per lavoro a Limone sul Garda. Mi piange il cuore, devo abbandonare la palestra!

Un altro pezzo di corazza si ruppe e un altro pezzo di cuore assieme a lei.

Continuai comunque a credere nei miei atleti, ripromettendomi però di non affezionarmi più a nessuno. Sono passati tanti anni da quei giorni, forse centinaia di atleti sono transitati in palestra, iniziai la preparazione di un ragazzetto di nove anni il quale aveva espresso il desiderio di combattere.

Campionati regionali medaglia d’oro, campionati del mondo quarto posto su 40 combattenti, campionati interregionali medaglia d’oro, mi affezionai a quel ragazzino, perfezionammo tattiche di gara, strategie che si dimostrarono vincenti, le soddisfazioni iniziavano ad arrivare, mi dicevo

Vedi, dopotutto c’è qualcuno che non demorde, che vuol continuare, che vuole essere un campione, hai fatto bene a dare ancora fiducia”.

Circa un mese fa mentre ci si preparava per i prossimi mondiali, prima dell’allenamento questo ragazzino venne con la madre la quale mi disse:

Non vuole più continuare, con grosso dispiacere anche per noi, abbiamo cercato di fargli cambiare idea ma non c’è niente da fare

Avevo dimenticato cosa si provasse, ma in quel momento sentii una mano che mi stringeva il cuore, non riuscii a dire altro che “Pazienza, ti stai portando via un pezzo del mio cuore, ma sopravvivrò!“.

Andati via. Entrai nello spogliatoio, e senza accorgermene sentii una lacrima che mi scendeva lungo la guancia.

L’asciugai, udii i ragazzi che entravano in palestra per iniziare la lezione. Era ora, mi tornò in mente: “Ridi pagliaccio…ridi, lo spettacolo deve continuare“.

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Note

[STORIA ANTICA] Vercingetorige, nemico pubblico dei romani

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In Francia è un eroe Nazionale, per i romani, e per Cesare in particolare, era il nemico pubblico numero uno

Oggi vorrei parlare di Vercingetorige, un altro combattente e della sua storia.

Il capo carismatico che riuscì ad unire le bellicose tribù galliche

Per conquistare la Spagna, Roma impiegò secoli. Per la Giudea invece, quasi 200 anni.

La Germania non l’ha mai conquistata, la Dacia nei Balcani le perse in poco tempo. La Gallia invece, cadde in soli otto anni, quelli del proconsolato di Giulio Cesare, a metà del l secolo a. C.

Dopo allora, l’Impero non dovette più fronteggiare alcun ritorno del nazionalismo gallico

La regione che poi sarebbe diventata la Francia (ed in parte anche il Belgio e gli attuali Paesi Bassi) si sarebbe integrata perfettamente con usi e costumi romani.

Eppure quegli otto anni furono lunghissimi per gli abitanti di quei territori, determinati a rifiutare il dominio romano, resistettero finché Cesare ci diede letteralmente,un taglio, facendo amputare le mani ai difensori di un villaggio gallico di irriducibili: Fu il caso di Uxelludunum, roccaforte dei galli cadurci sul fiume Dordogna.

A quel tempo la grande ribellione del 52 a. C. era già stata archiviata ad Alesia e il suo leader languiva in catene in attesa di essere esibito nel trionfo dal conquistatore.

L’epopea di Vercingetorige era durata lo spazio di pochi mesi, ma quel nome era già simbolo della resistenza all’imperialismo romano.

Prima di Vercingetorige la Gallia non era mai stata unita e le singole tribù erano perennemente in contrasto tra loro. Ma non solo, alcune, come gli edui, si erano addirittura alleate con i romani.

Altre Tribù erano già sotto il dominio di Roma (come quelle della provincia Narbonense, nelle attuali Linguadoca e Provenza), altre erano state assoggettate dai germani suebi o travolte da imponenti migrazioni, come quella degli Elvezi che Cesare arginò con le sue legioni.

E se Vercingetorige fu il primo a dare unità ai Galli, si dovranno aspettare i franchi di Clodoveo cinque secoli dopo e la dinastia merovingia per vedere la futura Francia unita sotto un’unica corona.


La regione che i romani chiamarono Gallia aveva dunque fatto della frammentarietà il suo tratto distintivo

Ma i popoli che l’abitavano avevano molti tratti comuni a cominciare dalla religione druidica, la quale aveva il suo centro nella Foresta dei carnuti vicino ad Orléans.

Qui, ogni sesto giorno dopo il solstizio d’inverno, si celebrava la raccolta del vischio.

I Druidi erano la classe dirigente, sacerdoti ma anche giudici, insegnanti e guaritori, ritenuti dai loro connazionali depositari di poteri soprannaturali, come predire il futuro e trasformarsi in animali.

Ogni nazione gallica aveva un re o una ristretta oligarchia al vertice della gerarchia politica, una cerchia di nobili guerrieri e la popolazione composta in gran maggioranza da contadini.

Come Arminio, l’eroe della resistenza germanica che fermò i romani nella battaglia di Teutoburgo nel 9 d. C., anche Vercingetorige aveva militato nell’esercito romano come ausiliario. Un cronista dell’epoca, Cassio Dione (III secolo d. C.), si spinse a dire che era amico personale di Cesare.

A partire da questo indizio c’è chi ha supposto che il capo gallico fosse addirittura un agente del Proconsole, che lo avrebbe incaricato di scatenare la rivolta per permettergli di consolidare il proprio potere.

Poco prima che Vercingetorige (ovvero “Grande re degli eroi”) emergesse dalle nebbie della storia, Cesare aveva già sedato la rivolta di Ambiorige, il leader più prestigioso che i galli avessero avuto fino a quel momento.

Il proconsole poteva ragionevolmente supporre di aver portato a termine il compito di pacificare la Gallia, dopo sei anni di lotte ininterrotte.

Capi giustiziati o esiliati, presidi legionari ovunque, territori talmente devastati che, a detta dello stesso Cesare, nessuno sarebbe stato in grado di sopravvivervi, erano il segno di un dominio imposto col ferro e col fuoco, tanto da aver spinto alcuni storici moderni a parlare di genocidio, invece il peggio doveva ancora venire.

Cominciò tutto a Cenabum, dove in pieno inverno la tribù locale dei carnuti compì un massacro di funzionari e commercianti romani.

L’azione, probabilmente decisa durante la cerimonia della raccolta del vischio e dunque “benedetta” dai druidi, riaccese ovunque il nazionalismo gallico.

Ci furono sollevazioni in serie, alle quali mancava solo una guida comune per sfociare in una rivolta generale.

L’uomo che aspettavano i galli si trovava tra gli Arverni, uno dei popoli più potenti della Gallia

Stanziato nella regione dell’Auvergne (Francia Centrale) gli Arverni, si narrava secoli prima, avevano partecipato all’invasione dell’Italia, poi infine si erano spartiti il dominio della Gallia stessa con gli Edui.

Sempre un re degli Arverni, Luernio, sfoggiava la sua ricchezza percorrendo le strade sul cocchio e gettando manciate di oro e d’argento, mentre un altro, Bituino, era stato deposto dai romani nel 121 a.C.

Il padre di Vercingetorige, Celtillo, aveva esteso il proprio potere a tal punto che i suoi stessi connazionali-rivali per fermarlo lo avevano giustiziato.

Quando iniziarono a circolare le voci sull’eccidio di Cenabum, Vercingetorige, che Cesare nel De bello gallico definì “di giovane età” eccitò gli animi alla rivolta.

Egli incontrò però l’opposizione della classe dirigente arverna, che lo espulse dalla capitale Gergovia


Ecco come il proconsole, nella sua mirabile prosa asciutta, ne descrisse l’ascesa:

Non rinuncia all’iniziativa e arruola nelle campagne i poveri e i disperati, messo insieme questo nucleo, convince tutti i concittadini che incontra a passare dalla sua parte, li esorta a prendere le armi per la libertà comune, riunite infine truppe numerose caccia dalla città i suoi avversari, dai quali poco prima era stato espulso.

A quel punto Vercingetorige fu proclamato Re dai suoi fedelissimi. Racconta ancora Cesare:

Spedisce in ogni direzione delle ambascerie, scongiura tutti di mantenersi fedeli, in breve tempo lega a sé i senoni, i parisi, i pittoni, i cadurci, i turoni , gli aulerci, i lemovici, gli andi e tutti gli altri che abitano sulla costa dell’oceano.


Ed è sempre Cesare a tramandare le informazioni sullo “stile di governo” del capo dei galli:

A uno zelo grandissimo accompagna una grandissima severità nell’esercizio del potere, tiene insieme gli esitanti con la gravità delle pene, infatti fa uccidere con il supplizio del fuoco e con ogni altro tormento i colpevoli di gravi delitti, per una colpa più leggera rimanda a casa il colpevole dopo avergli fatto tagliare le orecchie e cavare un occhio, perché siano d’esempio ai rimanenti e gli altri si spaventino per la grandezza del castigo.

Cesare, che un quel momento si trovava a sud delle Alpi, si precipitò per colpire la riottosa Arvernia, noncurante della neve ammassata sui passi

Vercingetorige rispose spostandosi nei territori alleati di Roma e costringendo così il proconsole, in nome del prestigio dell’Urbe, a venire loro in soccorso.

Cesare diede inizio ad una serie di assedi che culminarono con quello di Avarico, l’odierna Bourges, capitale dei galli biturigi.

Caduta dopo un contrattacco finito male, questa sconfitta paradossalmente rafforzò il prestigio di Vercingetorige, che aveva sconsigliato di affrontare i romani in campo aperto.

I due antagonisti puntarono allora su Gergovia, dove ebbe luogo l’assedio successivo.

Stavolta fu a Cesare che andò male. Per lui non fu una gran batosta, ma molte tribù decisero allora di passare con Vercingetorige.

La resa dei conti fra l’armata gallica (arrivata ormai a quasi 100 mila uomini) e i romani ebbe luogo ad Alesia, oggi Borgogna.

Quando la città fu alla fame e l’esercito di soccorso sconfitto, il giovane capo arverno rassegnò il proprio mandato davanti all’assemblea dei capi e si consegnò al proconsole.

La scena della sua resa, immortalata dal resoconto di Cesare, è certamente una delle più famose della storia.

Il proconsole racconta che il capo dei galli si presentò al suo cospetto in equipaggiamento completo, su un cavallo bardato di tutto punto, con il quale compì al galoppo un giro intorno alla postazione del vincitore assiso su una sedia curale, prima di scendere di sella, gettare armi e corazza ai suoi piedi e sedersi accanto a lui senza dire una sola parola.

Vercingetorige si arrende a Cesare (Alphonse-Marie-Adolphe de Neuville – François Guizot)


Il “Grande re degli eroi” non avrebbe più dato noie al futuro dittatore, fu giustiziato sei anni dopo, strangolato a Roma nel carcere Mamertino, dopo essere stato esibito come un trofeo per le vie di Roma.

Una fine che contribuì, soprattutto nell’Ottocento romantico, a farne un simbolo del nazionalismo gallico e un campione della libertà.

Note