Mar. Giu 17th, 2025

Storia

[CORAZZATA ROMA] Ammiraglio Carlo Bergamini

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Ammiraglio italiano, nato a S. Felice sul Panaro il 24 ottobre 1888 e morto il 9 settembre 1943 mentre era in servizio nella tristemente famosa Corazzata Roma.

La vita militare dell’Ammiraglio Bergamini è punteggiata da tappe, da episodi, da azioni, che gli hanno meritato pubblici riconoscimenti.

Dal lontano 1908, quando uscì Guardiamarina dall’Accademia Navale, al tragico 9 settembre che lo vide Comandante in Capo delle FF. NN., vittima “obbediente al più amaro degli ordini” nelle acque della Maddalena, egli ha percorso “con lo stile di sempre” quella via “fedele e silenziosa, che era la via della Marina.

Nella vita dell’ammiraglio della Roma non c’è nulla di straordinario

L’aver saputo farsi circondare “dall’amore, dalla stima, dal rispetto di tutti i suoi dipendenti, dagli Ammiragli ai giovani marinai, per il suo tratto signorile, per la sua umanità e per la fermezza del suo carattere e per la fedeltà ai suoi ideali” offre la motivazione più probante e la testimonianza più sicura di una personalità che ha saputo imporsi ed esprimersi nel compimento del dovere quotidiano.Nella sua vita non c’è nulla di straordinario.

Si è preparato ed è emerso; ha agito con impegno costante e si è segnalato; è stato uomo completo e si è fatto benvolere; ha assunto compiti difficili e si è fatto stimare; è stato fedele al suo giuramento ed è caduto “obbediente ai sacri comandi della Patria”.

Ha saputo compiere fino all’ultimo il suo dovere. Non ha rincorso cariche, non ha cercato riconoscimenti, ma ha raggiunto le une ed ha meritato gli altri.

Nel 1926 ebbe il comando del cacciatorpediniere “Carini” e nel 1934 fu nominato Capo di Stato Maggiore della 2ªSquadra Navale.

Un tragico epilogo: La Corazzata Roma

La Corazzata Roma (Foto ANSA)

In seguito, nell’aprile del 1943, divenne Comandante in Capo della Squadra Navale e il 9 settembre dello stesso anno lasciò il porto di La Spezia dirigendosi verso l’isola dell’Asinara, a bordo della Corazzata “Roma”, come era stato concordato al momento dell’armistizio con gli alleati.

Ma un ordine di Supermarina gli faceva invertire la rotta per dirigersi verso il porto di Bona, in Tunisia.

Durante il viaggio le corazzate “Roma”, “Vittorio Veneto” e “Italia” vennero attaccate da aerei tedeschi che riuscirono a colpire la Roma, affondandola all’altezza dell’isola dell’Asinara.

Quasi tutti gli uomini dell’equipaggio ed il comandante Bergamini perirono in questa tragica circostanza.

Note


[STORIA ANTICA] Le spade romane: Un breve excursus

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I romani imparavano a ferire non di taglio, ma di punta. Questi ultimi infatti non solo vinsero facilmente coloro che con le spade colpivano di solo taglio, ma anche si fecero gioco di essi.

I colpi di taglio infatti, con qualsiasi impeto siano inferti, più arduamente uccidono sul colpo poiché le parti vitali sono difese sia dalle armi ed armature, sia dalle ossa, mentre invece le ferite inferte con la punta della spada se penetrano per due once (cinque centimetri n.d.r) sono mortali.

È infatti necessario che qualsiasi arma penetri nel corpo attraversi punti vitali. In secondo luogo, mentre si colpisce di taglio, il braccio e il fianco destro possono rimanere scoperti, invece quando si colpisce di punta il corpo rimane coperto e si ferisce l’avversario prima che se ne accorga.

Perciò si sa che i romani usarono soprattutto questo tipo di colpo per combattere.

Vegezio indica al cap. XVI “ Quemadmodum Triarii vel Centuriones armentur “ l’armamento dei Triari e dei Centurioni che consiste in scudi, corazze, elmi schinieri, spade, (gladiis) mezzespade, (semispathiis), le piombate e due giavellotti.

In questa mia breve disanima sulle armi romane, presento le spade che godettero in periodi diversi di grande considerazione

Esse furono essenzialmente tre:

  • Il glaudius ispanicus/ispaniensis, il termine ispanicus è riferito alla spada in uso tra le popolazioni celtiche presenti in Spagna sin dal V secolo a.C. E conosciute come Celtiberi. È un’arma simile per caratteristiche alla spada greca e a quella celtica con lama a foglia e che dette vita con la sua struttura, a metà del I secolo d. C.
  • Alla spada tipo Pompei, rettifila e idonea a portare anche colpi di taglio che farà da matrice tra il secondo e il terzo secolo d. C. a quella spada più lunga e pesante adottata dall’esercito romano.
  • Il tipo spartha che tuttavia non soppiantò del tutto la Pompei

Si tratta in tutti e tre i casi di armi potenti e ad alta capacità penetrativa, in particolare le spade tipo Pompei presentano una lama lineare a sezione romboidale con punta acuminata, spigolosa e affilata, priva di guardia e con impugnatura anatomica rilevata a creste.

Il pomolo è sferico e di grandi dimensioni per necessità di equilibrare il peso di assetto della punta. Si può affermare che la Pompei ottimizzò le soluzioni del gladius ripartendo il peso spostandolo dal debole al medio/forte stabilizzandone così la punta, viene giocoforza il paragone con la spada lateniana celtica, della quale condivide in buona misura lunghezza, peso, dimensionamento e impugnatura.

La lama delle spade romane non è a foglia, ma di foggia lineare ed acuta e questo tipo di conformazione si ritrova in alcune lame celtiche

Si sa sempre da Vegezio che l’addestramento alla spada e di spada e scudo era tenuto in gran considerazione, i poderosi colpi di punta erano sferrati al quadrato romano (zona compresa tra il plesso solare e le pelvi) ed i colpi di taglio venivano sferrati principalmente al braccio armato e alle gambe dell’avversario, in particolare all’articolazione esterna/interna del ginocchio o al garretto.

Questa fu una strategia di scuola greca, per inibire la capacità di movimento in combattimento che tra l’altro una tale ferita rendeva il guerriero sopravvissuto un peso alla comunità in quanto non avrebbe più potuto combattere, in alcuni casi si colpiva anche alla testa di fendente con effetti devastanti e a questo colpo ricorrevano i soldati romani, quando si trovavano a combattere contro gli altri soldati sprovvisti di elmi, come nel caso di battaglie sostenute dalla LEGIO II AUGUSTA in Inghilterra.

L’abilità sviluppata nelle scuole di scherma dai soldati romani faceva si che il loro addestramento puntasse a ridurre i tempi di caricamento del colpo, a non esporre il lato destro e soprattutto a muoversi contro un avversario utilizzando gli inganni e le strategie individuali quasi si trattasse di un confronto in duello, mantenendo tuttavia una coesione di massima con il resto della milizia.

Si riducevano così anche le uccisioni di commilitoni nella mischia di contatto, che avvenivano in alcune battaglie per la furia dello scontro tra due unità contrapposte, questo “inconveniente” che portava al ferimento dei soldati amici posti ai lati e dietro era causato dallo sbracciamento dei colpi e dalla scarsa coesione dei ranghi.

Manovrare una replica di spada romana dà l’idea del potere devastante di queste lame

Fa percepire quanto sanguinario e terribile fosse lo scontro tra due armati che giunti alla distanza relativamente corta iniziavano a tirare punte e a lanciare tagli la cui forza sprigionata era tremenda, bisogna ricordare che si tratta di armi che in battaglia venivano utilizzate massivamente in mezzo ad una moltitudine di corpi a stretto contatto in un raggio di azione spesso ridotto.

Non era possibile sfuggire più di tanto a fendenti e stoccate impetuose, data la situazione di battaglia, e si doveva tentare di chiudere le linee con dei colpi in tempo e dove era necessario opporre decisamente e con grande impeto scudo u spada ai colpi avversi.

Note


Sardigna (no) est Italia

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Questo articolo vuole offrire una narrazione leggera e dipanata in forma temporale, per ripercorre il passato della Sardegna e dei sardi e per riflettere sull’identità di quest’ultimi.

La colonizzazione culturale ed il processo di Italianizzazione della Sardegna

Sardigna no est Italia. Una frase che spesso si incontra in Sardegna scritta nei muri o in manifesti politici indipendentisti, dà spunto a diverse domande.

Un graffito dove è scritto in lingua sarda un motto indipendentista
Graffito a Milano (foto Wikimedia Commons user: Sciking CC BY-SA 4.0)

Perché la Sardegna non è (o non dovrebbe essere) italiana? I sardi si sentono sardi o italiani?

Le risposte a queste domande necessitano un approfondimento storiografico non indifferente, che si intreccia a sua volta anche con le dinamiche politiche avvenute in tempi odierni nella nostra isola.

È certo che le risposte possano essere soggettive, considerando che possano essere il frutto di una acculturazione Italiana e dei processi formativi della nazione.

Seguendo l’ordine cronologico iniziamo dall’eta del Bronzo

Come accennato, durante l’età del Bronzo (2200-900 a.C.) possiamo considerare la Sardegna come cultura indipendente.

I nuraghi vennero infatti edificati dalle popolazioni autoctone dell’epoca (Ugas, 2006), senza influenze extra-isolane, in particolare Micenee, come invece si concordava sino a non molto tempo fa (Lilliu, 1999).

I sardi di allora intrattenevano infatti scambi commerciali, ricevevano ed esportavano beni materiali, essendone loro stessi i principali vettori. Navigavano, quindi, si spostavano, intrattenevano commerci e pirateggiavano lungo le coste del Mediterraneo.

Tali evidenze si riscontrano nei risultati di campagne di scavo effettuate nella stessa Sardegna, ma anche in Corsica, Sicilia, Lipari, Creta, Cipro, Egitto, Spagna e vicino Oriente (Burge et al. 2019).

I sardi dell’età del Bronzo appaiono come una civiltà a se stante, con villaggi circoscritti a ciascun nuraghe, proprie tradizioni funerarie e propria cultura materiale.

Il territorio appare suddiviso in aree destinate a diversi usi, tra cui quello funerario, come evidente dai raggruppamenti di tombe dei giganti o a pozzetto (eg: Mont’e Prama). Non possiamo ricostruire interamente la società della Sardegna dell’epoca: si hanno poche informazioni, a causa della mancanza di documenti scritti da loro stessi, a differenza di altre popolazioni contemporanee, come Egizi e Babilonesi.

Possiamo comunque trovare alcuni indizi

Tuttavia, possiamo trovare alcuni indizi, come spesso capita, nelle tradizioni funerarie. Le famose tombe dei giganti erano infatti tombe comunitarie, volte ad accogliere al loro interno molto probabilmente l’intera comunità, piuttosto che una ristretta élite.

Se gli antichi sardi facessero distinzioni sociali tra loro, non ci è noto: seppur probabile (visto che era una pratica comune a praticamente tutte le altre culture contemporanee del Mediterraneo), ciò non appare dalla tradizione funeraria che parte dal Neolitico sino al Bronzo Recente/Finale (Joussoume, 1988; Lilliu, 2017; Ugas, 2016).

Questo potrebbe significare che le comunità che abitavano la Sardegna a quel tempo vivessero in una società egalitaria, o per lo meno egalitaria in termini di tradizioni funerarie. Questo è dibattuto da Mauro Perra che sostiene come l’antica società sarda potrebbe essere stata elitaria a prescindere dalla tradizione funeraria (Perra, 2009).

Realtà distante dall’egualitarismo furono quelle dei popoli con cui entrarono in contatto gli antichi sardi, tra cui Ittiti ed Egizi, note monarchie. Non abbiamo evidenze su come gli antichi sardi si autogovernassero, solo ipotesi, tema che verrà approfondito in separata sede.

È inoltre doveroso evidenziare come gli antichi sardi abbiano sviluppato e trasformato un’architettura megalitica originale, costruendo i già menzionati nuraghi. Queste strutture sono il frutto di secoli di sviluppo, che vedono nel nuraghe classico, poi diventato complesso, il non plus ultra di un’architettura autoctona ed indipendente.

La nascita di una cultura così fortemente caratterizzata e caratterizzante per il paesaggio dell’isola e per i suoi contatti, unitamente alla preistoria del Mediterraneo, ha contribuito a formare una forte identità
isolana, in opposizione a tentativi di oppressione proveniente dall’esterno
. I nuraghi infatti, rappresentano il simbolo di una cultura, un’identità interamente sarda, che resiste e rimane in piedi tuttora.

Facendo un lungo salto temporale, passiamo al tempo dei Giudicati

Dopo secoli di dominazione prima punica e romana, e poi bizantina, varie ed eventuali invasioni che non menzioniamo in questa sede, si arriva al tempo dei Giudicati. I Giudicati furono quattro regni indipendenti che amministravano le sub-regioni dell’isola, chiamate curatorias. Questi erano il Giudicato di Torres, con capitale l’odierna Porto Torres, poi Ardara ed infine Sassari, Il Giudicato di Arborea, quello di Cagliari e infine quello di Gallura.

I Giudicati avevano potere di legiferare, naturalmente in lingua sarda, vedasi ad esempio la Carta De Logu. Questa rappresenta un vero e proprio ordinamento giuridico con norme che ne fanno un vero e proprio codice civile e penale. Questi regni, governati da un Iudex cioè un Giudice (Juighe in Sardo) amministrarono la Sardegna fino alla conquista aragonese, avvenuta ufficialmente dopo che il regno di Aragona vinse la Battaglia di Sanluri il 30 Giugno 1409.

I presupposti della conquista risalgono tuttavia a quasi due secoli prima, quando Papa Bonifacio VIII concesse la Sardegna e la Corsica come feudi al Regno di Aragona, con la Bolla Ad Honorem Dei Onnipotenti Patris, per sedare la guerra tra angioini e aragonesi sul Regno di Sicilia. Il Papa diede dunque una licentia invadendi, il diritto ad invadere l’isola, pur sapendo che l’isola avesse una propria entità autonoma, di cui chiaramente aveva poca conoscenza e ancor meno considerazione.

Dopo la conquista aragonese

Nonostante l’isola venne conquistata, la popolazione mantenne le proprie identità, tradizioni, e lingua. Eccezion fatta naturalmente per tutto ciò che l’inquisizione spagnola non riuscì a estirpare, come l’arte di curare con l’erboristeria ed altre pratiche pagane. Solo la nobiltà imparò lo spagnolo, lingua ufficiale, mentre i ceti più bassi continuarono a usare il sardo, contribuendo indirettamente al mantenimento di una forte identità nazionalistica.

Dopo la Guerra di Successione Spagnola (1701-1714) i Savoia presero in mano le redini della Sardegna, che divenne ufficialmente parte del Regno Sardo-Piemontese nel 1720.

I dominatori sabaudi

Ai Savoia poco interessava del popolo sardo, dal quale esigevano tributi, manodopera a basso costo e materie prime isolane. Il popolo sardo era inoltre oggetto di ludibrio da parte de piemontesi, e la classe aristocratica sarda, considerata “inferiore”, aveva meno influenza nella politica del Regno.

Il Regno di Sardegna infatti di sardo aveva solo il nome, perché i regnanti e la maggioranza della aristocrazia erano nobili piemontesi, che naturalmente spingevano sempre più verso una centralizzazione piemontese, in maniera non dissimile da quello che avvenne anche nella penisola, a livello nazionale, dopo il 1946.

L’invasione francese e la resistenza sarda

Nel 1793 due flotte Francesi tentarono di invadere l’isola. Una a nord, dall’arcipelago della Maddalena, e l’altra da sud nel Golfo di Cagliari. La corona, sospettosa ed incapace di difendersi dall’armata Francese (la più forte dell’epoca), lasciò volutamente sguarnita l’isola, ritenendola sacrificabile ed incapace di difendersi.

Giovanni Maria Angioy, magistrato e rivoluzionario, organizzó delle milizie isolane, reclutando in ogni angolo dell’isola. Finanziò egli stesso, insieme al Vescovo di Cagliari, l’acquisizione dell’equipaggiamento necessario alla difesa.

Una volta sbarcati nel Golfo di Cagliari, i francesi furono respinti dalle milizie guidate da Vincenzo Sulis anche grazie alle condizioni meteo favorevoli agli assediati, come la provvidenziale nebbia che disorientó gli invasori (numerosi gli incidenti di fuoco amico tra i Francesi), e l’orografia del terreno: gli stagni e le paludi del circondario cagliaritano non facilitarono certo l’avanzata degli invasori.

I francesi conquistarono tuttavia facilmente le Isole di Carloforte e Sant’Antioco, dove vennero accolte dalla popolazione locale, per questo, una volta trovata una fervida resistenza sulla costa cagliaritana ammutinarono.

A nord, l’isola venne difesa da Domenico Leoni (noto Millelire) e da altri volontari che da Palau riuscirono a bombardare l’ammiraglia Fauvette, abilmente adescata dalla galeotta al comando del Maddalenino Tommaso Zonza (Caterini, 2016).

La narrazione distorta dei piemontesi

Il Re Vittorio Amedeo III di Savoia, volendo premiare i sudditi per la difesa del Regno, decise di offrire delle ricompense, che però ovviamente finirono nelle tasche dei piemontesi in carica, e non in quelle dei volontari sardi che difesero l’isola.

Non sorprende che ciò incrementò ancor di più il malcontento nei confronti dei regnanti. È doveroso fare notare, come discusso da Caterini (2018, p. 212), che la narrazione “ufficiale” ignora totalmente il ruolo della resistenza sarda nella difesa dell’isola, narrando invece di come il potente esercito francese (ricordiamolo nuovamente, il meglio organizzato e più efficiente dell’epoca), come preso da un raptus di folle autolesionismo, si sabotò da sé per poi semplicemente ripartire: ma si sa, la storia è scritta dai vincitori e queste vicende non vengono insegnate nelle scuole Italiane, ancor meno in quelle sarde.

Dopo la difesa dell’isola, la classe dirigente isolana richiamò gli Stamenti (componenti del Parlamento del Regno) per chiarire le loro richieste al Regno. Quest’ultimo acconsentì a cinque delle richieste, che in sintesi ottennero così una maggiore autonomia e l’assegnazione di impieghi governativi anche ai sardi.

Queste concessioni vennero comunque cessate dal governo piemontese che non vedeva di buon occhio le richieste avanzate, ritenendo naturalmente che sarebbero andate ad intaccare il controllo piemontese sull’isola. Dopo decadi di soprusi, durissime condizioni economiche e malattie, il malcontento continuò a crescere, e questo rifiuto fu la proverbiale goccia che fece traboccare il vaso, già colmo da vari anni.

I vespri sardi e la Sarda Rivolutzione

I sardi si ribellarono, seguendo l’esempio della Rivoluzione Francese, ed il 28 Aprile del 1794 furono cacciati dall’isola il Viceré Balbiano insieme a tutti i funzionari piemontesi presenti a Cagliari.

A seguito di questo evento, gli Stamenti presero il controllo e autogovernarono l’isola per diversi mesi, fecero leva sulle precedenti richieste e con la cooperazione del popolo ne aggiunsero una nuova, l’amnistia per i partecipanti ai fatti del 28 Aprile. Il popolo, comprendente le milizie volontarie che cacciarono i funzionari, ebbe parte attiva nella formulazione delle leggi e delle richieste (cosa impensabile all’epoca) lavorando in maniera democratica (Carta, 2001).

A questo punto il Re accettò alcune richieste, appuntando Gerolamo Pitzolo come Intendente Generale ed il Marchese della Planargia Gavino Paliaccio come Generale delle Armi.

Questo non bastò a placare l’indipendentismo

Questi tuttavia non avevano ideali indipendentisti, ed anzi tramavano contro l’ala progressista sarda e miravano a reprimere, anche con l’uso della forza, le correnti democratiche che si andavano formando.

Il 1795 vide un’altra ribellione, causata della mancata riunione degli Stamenti, che fu impedita dall’esercito comandato dal Paliaccio. Successivamente, l’ala democratica insorse con le milizie, prevalendo sugli uomini del Paliaccio: questo, insieme al Pitzolo, venne arrestato e giustiziato dalla folla.

Fu proprio durante questo periodo rivoluzionario che Francesco Ignazio Manu scrisse la poesia Su Patriotu Sardu a sos Feudatarios, poi riconosciuto dalla Regione Sardegna come inno ufficiale nel 2018.

Dopo questi avvenimenti Giovanni Maria Angioy venne incaricato come Alter Nos, cioè sostituto Viceré, e cerco’ di riformare la società, mirando all’abolizione del feudalesimo: ricorse all’uso della forza contro i feudatari, venne pero’ respinto dagli Stamenti e forzato alla fuga in Francia, dove morì.

Ci furono numerose altre ribellioni negli anni a seguire, che videro pero’ emergere vincitore il governo sabaudo, spesso aiutato da banditi locali (a cui veniva molto opportunamente concessa la grazia in cambio dell’aiuto prestato), come nel caso dell’Eccidio di Thiesi (Sa die de S’atacu) del 1800.
Con l’Unificazione d’Italia del 1861, i sardi divennero ufficialmente Italiani. Poco cambio’ nella realtà sarda, afflitta dalle stesse problematiche di prima, e con le campagne pullulanti di banditi che venivano braccati dai Carabinieri Reali.

Nel Regno d’Italia nulla è cambiato

L’isola ed i suoi abitanti continuarono ad essere sfruttati per le proprie risorse, forza lavoro e materie prime.

Nel frattempo le mire espansioniste di casa Savoia posarono lo sguardo ben oltre le montagne della Sardegna. Nei primi del ‘900 infatti il Regno mirava a colonizzare territori nel nord Africa ed a riappropriarsi delle regioni in mano agli Austroungarici. Fu con le guerre in Tripolitania e Tunisia che il Regno d’Italia svuoto’ quasi completamente l’Isola dalla sua razza canina autoctona, il pastore Sardo (conosciuto come cane beltigadu, trighinu, cane Fonnesu etc), rinomato per la sua cattiveria e doti di guardiania agli armenti e proprietà (Balìa, 2005). L’uso di questi cani era infatti destinato a stanare e uccidere i nemici in terra straniera, cosi’ da poter limitare le perdite umane.

La Grande Guerra ed i sacrifici della Sardegna

Oltre a decimare la popolazione canina sarda il Regno, in nome dell’unificazione, porto’ la nazione in guerra contro L’impero Austro-Ungarico nel 1915. Questo avvenimento non solo depopolò il continente, ma costo’ alla Sardegna un carissimo prezzo. Venne costituita la Brigata Sassari, composta quasi totalmente da sardi, ad eccezione di alcuni ufficiali. La brigata ebbe una media di 138 caduti ogni 1000 soldati, contro una media nazionale di 104 (Motzo, 2007).

Le campagne si spopolarono, e la brigata venne ricostituita più volte attingendo a ragazzi sempre più giovani dalle famiglie isolane. La brigata inoltre era di difficile in infiltrazione per le spie italofone o indigene delle regioni occupate dagli Austroungarici, dato che la lingua parlata dai soldati e ufficiali era il sardo.

I soldati stessi non si sentivano Italiani, erano contrari e non capivano perché dovessero prendere parte ad una guerra che non fosse la loro, per una nazione che non era la loro. Lo stesso Lussu descrive come la Brigata fu l’unica a non essere punita per essersi opposta alle fucilazioni a causa dei suoi sforzi nelle trincee (Lussu, 2014).

La lingua sarda ed il fascismo

L’italianizzazione della Sardegna avvenne realmente in questo periodo. La Guerra e l’esperienza vissuta in trincea spinse Lussu ed i sardi a sviluppare una nuova coscienza regionale-nazionale. Questo portò alla fondazione, nel 1921, del Partito Sardo D’azione, di stampo autonomista più che separatista che pero’ mirava ad essere un partito per i sardi. Il partito Fascista cercò inutilmente di fondersi con il PSd’Az, ma non poté superare la forte opposizione di Lussu e degli altri fondatori, profondamente antifascisti.

Negli anni a seguire, durante il fascismo e lo scioglimento di tutti i partiti politici, Lussu venne esiliato. Il PSd’Az venne ricreato nel dopoguerra ma non raggiunse mai gli originali obiettivi autonomistici, discostandosi invece da essi, per coalizzarsi, di recente nel 2018, con la Lega Nord.

La denigrazione delle lingue minoritarie

È noto infatti, come il fascismo abbia “creato” l’Italiano, incrementando l’insegnamento della lingua a scuola a discapito delle altre lingue preesistenti a livello nazionale, come la lingua sarda e le sue varianti.

L’italianizzazione non colpi’ solo la lingua ma anche l’archeologia. La cultura sarda protostorica differisce in toto da quella classico-etrusca scelta da Mussolini nella sua narrazione patriottica propagandista: nell’ottica fascista andava quindi declassata ed oscurata. Fortuna volle che Antonio Taramelli riuscì a studiare e scavare numerosi siti durante il ventennio, nonostante ciò non rispettasse pienamente la visione fascista.

Nella repubblica l’italianizzazione contro la lingua sarda continua

Il processo di Italianizzazione continuò ancor più’ pesantemente nel dopoguerra, in tutta la nazione ed ovviamente anche, anzi soprattutto, in Sardegna.

L’alfabetizzazione delle masse creò un nuovo bilinguismo o multilinguismo, la propaganda nazionale voleva creare dal nulla, anzi imporre, un’identità Italiana, proprio come aveva fatto il fascismo fino al 1945, seppur per motivi diversi (che tanto diversi non erano, tuttavia: potere e denaro, ed i soliti motivi dietro a ciascuna di queste grandi operazione politiche).

Le proverbiali uova da rompere per fare questa succulente frittatona italiana

Le uova da rompere erano quelle delle regioni, da sempre aventi distinte identità locali (spesso anche a livello sub-regionale), e le più dure erano quelle più remote od isolate, che proprio per questo motivo avevano identità più’ “forti”.

L’insegnamento della lingua Italiana alle generazioni che vissero durante il ventennio e nel primo dopoguerra avvenne in maniera poco ortodossa, se “insegnamento” si poteva chiamare.

Come possono testimoniare le generazioni di persone ora tra i 70 e i 90 anni di vita, era vietato usare lingue autoctone a scuola ( impropriamente chiamate “dialetti”, una minuzia lessicale volta tuttavia a sminuirne l’importanza, anche a livello quotidiano, nel subconscio delle masse).

L’uso di queste comportava nel migliore dei casi l’essere sgridati, mentre più spesso punizioni, spesso corporali, erano date dagli insegnanti che adoperavano stecche e piccoli frustini per punire gli alunni.

Lingua sarda retrograda, usata dalla plebe e quindi inutile

Inoltre, col retaggio fascista si diffuse la credenza che la lingua autoctona fosse retrograda, rozza, usata dalla plebe e quindi inutile. Meglio usare l’Italiano perché questa era la lingua nazionale e dei letterati. Questa visione, unita anche a un complesso di inferiorità (fomentato e corroborato da due secoli di soprusi e trattamenti di sfavore), ha contribuito a creare nuove generazioni di sardi bilingui, ma anche di sardi Italofoni capaci di capire le lingue sarde ma incapaci di parlarle.

In questo processo la lingua nativa viene quindi eclissata dalla lingua arrivata dal continente, e declassata dalla stessa popolazione, generazione dopo generazione.

Viene ritenuta adatta all’uso informale e nel nucleo domestico, ma inadatta a esprimere concetti di livello e non viene insegnata nelle scuole. Per decenni, le lingue locali vengono stigmatizzate, in Sardegna come nel resto d’Italia (ad eccezione di alcune aree oggetto di particolari favoritismi, che non discuteremo in questa sede).

Non venendo insegnata la storia, la cultura e la lingua sarda nelle scuole, dopo decenni di studio e acculturazione italiana, il risultato è una identità mista. Le nuove generazioni, ma anche quelle che correntemente si collocano tra i 35 e i 60 anni di età, spesso si identificano come italiani o sardi ma anche semplicemente italiani.

La lingua sarda e l’avvento dei Mass Media

La forte emigrazione, la scolarizzazione e l’avvento della televisione hanno contribuito ad annullare la lingua sarda e con essa l’identità, che senza la lingua, fatica ad esistere (ironicamente, nonostante la lingua, anche l’identità’ italiana fatica ad esistere: e questo fallimento su entrambi i fronti rende ancor più’ tragica l’estirpazione delle identità’ locali, un eccidio culturale perpetrato quindi invano).

In Sardegna, da parte di molti genitori, fu ritenuto squalificante far parlare ai propri figli il sardo, incentivandoli in maniera forzata ad usare l’italiano. Si è creato quindi un complesso di inferiorità che ha portato parte della popolazione a preferire una lingua piuttosto dell’altra, ed a deridere chi volesse imparare il sardo.

Meglio che parli in italiano, così non deformi il sardo!

Se non si è di madrelingua sarda e si prova a parlarlo, non è raro infatti sentire commenti quali Menzus chi faeddes in italianu gai no istropias su sardu! ossia Meglio che parli in italiano cosi non deformi il sardo!

Il sardo quindi, tramite l’italianizzazione, diventa il proprio peggior nemico e deride i propri conterranei invece di incoraggiarli ad imparare la propria lingua: il “lavaggio” dell’isola in tema tricolore trova qui il suo più’ grande, doloroso successo.

Non stupisce infatti che i dati ISTAT del 2017 mostrino come in Sardegna l’uso della lingua sarda in famiglia superi di poco il 30%, a confronto del resto del sud Italia e delle isole dove l’incidenza è del 68%.

La Regione Sardegna può incrementare e favorire l’insegnamento del sardo in via opzionale, con la legge regionale 22/2018 e nonostante la lingua sia tutelata dalla costituzione, continua a ignorare la questione.

Tuttora in Sardegna non si può scegliere di imparare la lingua sarda nei moduli di iscrizione scolastici. Questo, in maniera voluta o meno contribuisce alla folklorizzazione di una lingua e cultura che andrà
decadendo
, mischiandosi con l’italiano e rimanendo destinata ad uso orale e folkloristico. Finché la lingua non verrà insegnata ed i giovani non saranno aiutati ad appropriarsi della loro lingua, essi continueranno a sentirsi italiani.

(Si ringrazia calorosamente il dott. Dario Oggioni per aver letto e commentato le bozza di questo articolo)

Bibliografia

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  • Caterini, F. 2018. La Mano Destra Della Storia, la demolizione della memoria e il problema storiogra co in Sardegna. Carlo Del no Editore.
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  • Lilliu, G. 1999. la civiltà nuragica – Sardegna archeologica, studi e monumenti 2. Carlo Del no Editore.
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  • Lussu, E. 2014. Un’anno sull’altipiano. Einaudi.
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  • Motzo, L. 2007. Gli intrepidi Sardi della Brigata Sassari. Edizioni Della Torre.
  • Ugas, G. 2016. Shardana e Sardegna: I Popoli del Mare, gli alleati del Nordafrica e la ne dei Grandi Regni (XV-XII secolo a.C.). Edizioni Della Torre.

Turris Libisonis Colonia Iulia?

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Porto Torres fu veramente fondata dai Romani? Turris Libisonis, unica colonia Romana presente in Sardegna, fu, stando alle fonti, fondata da Giulio Cesare che tornando vittorioso dall’Africa nell’estate del 46 a.C. fece scalo nel golfo dell’Asinara 1Plinio Historia Naturalis, III, 85.

Veduta aerea del palazzo di Re Barbaro (Foto Roberto Biosa)

La colonia sorse sulla riva ad Est del Rio Mannu, fiume che con la sua foce originariamente protetta fungeva da approdo naturale. Le fonti classiche non menzionano alcuna resistenza in loco da parte di popolazioni autoctone, ne se ci fu un interazione pacifica. Apparentemente quindi, stando a quanto riportato da Plinio, l’urbe venne edificata ex novo. Questa edificazione, come da consuetudine per l’élite romana, dava la possibilità di colonizzare nuovi territori. I veterani divenuti proprietari terrieri potevano così usufruire delle terre promesse da Roma per arricchirsi e vivere nel lusso delle loro ville.

Il territorio di Porto Torres però è ricco di evidenze archeologiche preromane inquadrate in un contesto cronologico molto vasto, dal neolitico sino alla tarda età del ferro. Già nel 1848 venivano segnalati 36 nuraghi, nel 1901 solo 16 2Fonte: Nissardi , mentre uno studio condotto da Lo Schiavo (1989) ne identificò solamente 8 3PUC Porto Torres 2014.

Il villaggio Nuragico di Biunisi con la sua cinta di mura perimetrale (Foto Roberto Biosa)

A partire dall’Editto delle Chiudende che caratterizzò un mostruoso cambiamento paesaggistico nell’isola durante l’ottocento e che, anche nelle campagne turritane contribuì alla distruzione di siti archeologici, non meno fu il contributo dato dalla costruzione della moderna zona industriale. Questa infatti, vede inglobata al suo interno tre importanti siti dell’età del Bronzo ancora inediti e poco studiati. I Nuraghi Ferrali, Minciaredda e Nieddu sono infatti circondati dalle famose cisterne chiamate “ottantamila” e attualmente non possono essere visitati, se non durante la manifestazione Monumenti Aperti come avvenuto nel 2014 per il Nuraghe Nieddu.

I pochi siti Nuragici ancora identificabili risultano per lo più complessi, anche se di difficile lettura a causa della vegetazione o della distruzione perpetrata nei secoli. Un esempio di questo sono i già menzionati nuraghi Minciaredda e Ferrali, di difficile individuazione, e poi i nuraghi Nieddu, Margone, Sant’Elena, Biunisi e Monte Aiveghe.

Quest’ultimo rappresenta un evidenza molto interessante che potrebbe contrastare il nostro titolo. Si tratta infatti di un nuraghe apparentemente semplice che in realtà cela un altra torre di difficile lettura al suo mastio centrale. Inoltre, cinquanta metri a sud del nuraghe, nella parete rocciosa della collina cosi chiamata “Monte Aiveghe” si trovano circa quattro tombe ipogeiche di difficile attribuzione cronologica che furono utilizzate in tempi moderni come porcilaie. Questo sito, anch’esso ancora non investigato si trova a circa mille metri dalla colonia di Turris. Sulla sponda est del Flumen Turritanum si può individuare con non poca difficoltà la Domus de Janas di Birali, distante circa settecento metri dalla colonia.

I resti del Nuraghe Monte Aiveghe e l’omonima collina sulla sponda Ovest del Rio Mannu
(Foto Roberto Biosa)

È chiaro come le evidenze di una frequentazione e appropriazione del territorio in contesto preromano non manchino nel territorio di Porto Torres. Ciononostante bisogna specificare che per rispondere al nostro quesito iniziale solo delle ricerche scienti che potrebbero darci qualche chiarimento se non anzi lasciarci con qualche nuova domanda. È possibile che la Turris di Turris Libisonis fosse un nuraghe ancora parzialmente conservato all’arrivo dei romani, magari il Nuraghe Monte Aiveghe? O era presente un insediamento con Nuraghe dove oggi sorge il parco archeologico che quindi diede il nome alla città?

Queste sono naturalmente solo ipotesi, che potremo rispondere attraverso delle indagini scienti che presso l’area archeologica Turritana e nei pressi della collina di Monte Aiveghe. È chiaro cosa i romani trovarono al loro arrivo, vestigia gloriose di un passato ormai perduto. Chi trovarono invece? Un posto abbandonato o gli eredi di quest’ultimo?

Bibliografia

  • Angius, V. 1834. In Casalis, G. Dizionario geografico, storico, statistico, commerciale degli stati di SM il Re di Sardegna, II, Torino 1833-1857.
  • Plinio Historia Naturalis, III, 85.
  • Lo Schiavo, F. 1989. L’archeologia della Nurra, in Pietracarpina, A. (a cura di), La Nurra, sintesi monogra ca, Sassari, pp. 149-163.
  • Piano Urbanistico Comunale Comune di Porto Torres, 2014. Modello interpretativo dei Beni Archeologici, relazione Storico-Culturale – Beni Archeologici

Genocidio in Ruanda, morti gli ultimi ricercati dalle autorità ruandesi

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Stando alle ricerche sarebbero morti (sfuggendo alla giustizia) gli ultimi ricercati per il genocidio del 1994 in Ruanda. Si trattava di due uomini d’affari, uno conosciuto solo col nome di Ryandikayo e l’altro invece chiamato Charles Sikubwabo.

Stando agli uffici preposti, nella lista dei ricercati non ci sarebbero più fuggitivi di grosso calibro nei registri dell’ICTR (International Criminal Tribunal for Rwanda) e l’ICTY (International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia), ovvero i tribunali internazionali creati negli anni novanta per investigare e perseguire i criminali di guerra ruandesi e dell’ex-Jugoslavia. Tuttavia, le autorità della Repubblica del Ruanda, sostengono di stare ancora cercando circa 1.000 altri fuggitivi da processare per il genocidio.

Entrambi gli uomini erano accusati di istigazione e partecipazione ai massacri delle persone di etnia tutsi. Il genocidio del Ruanda, perpetrato dal 6 aprile fino alla metà di luglio del 1994, è noto per aver massacrato, secondo le stime ufficiali, almeno cinquecentomila persone. Le stime sul numero delle vittime però col tempo sono cresciute, fino a raggiungere cifre fino ad un milione di vittime dei massacri. La fine delle indagini a loro carico l’ha dichiarata, dopo 29 anni, l’International Criminal Tribunal for Rwanda (ICTR). Entrambi i criminali, stando alle indagini, sarebbero però morti già dal 1998.

«Il mio Ufficio ed Io siamo lieti che oggi il nostro lavoro è stato portato a termine con successo» – affermava il 15 maggio 2024 Serge Brammertz, procuratore capo dell’International Residual Mechanism for Criminal tribunals (IRMCT)

Le attività del tribunale internazionale

Fin dal 2020, la squadra di localizzazione dei latitanti dell’Ufficio del pubblico ministero dell’ICTR ha localizzato tutti gli otto supericercati dal tribunale internazionale del Ruanda. Queste operazioni hanno poi portato all’arresto due dei latitanti: Félicien Kabuga, a Parigi nel maggio 2020, e Fulgence Kayishema, nella città di Paarl in Sudafrica a maggio 2023. Il pubblico ministero dell’ICTR ha infine confermato la morte di altri sei latitanti: Augustin Bizimana, Protais Mpiranya, Phénéas Munyarugarama, Aloys Ndimbati e gli stessi Ryandikayo e Charles Sikubwabo.

(in copertina immagine di repertorio Wikimedia Commons)

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[CULTURA SARDA] Il nome Sardegna

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Dal latino Sardinia, terra, isola dei Sardi

Dal latino Sardinia, terra, isola dei Sardi (Sardi-orum). Nome con cui i romani chiamavano la Sardegna e nome della provincia romana di Sardegna, costituita nel 227 a.C.

Vincenzo Maria Coronelli – Sardiniae Regnum et Insula (1734)

I Greci chiamavano la Sardegna Sardò

I greci chiamavano la Sardegna Sardò, connettendola a Sardo, figlio di Eracle che secondo il mito sarebbe giunto nell’isola a capo di colonizzatori libici.

La Sardegna era chiamata dai greci anche Ichnussa, dal greco ichnos (orma di piede umano), per la sua caratteristica forma (da cui anche Sandaliotis, da sandalion, sandalo).

Il radicale s(a)rd- , che identifica l’ethnos dei sardi, appartiene al sustrato linguistico mediterraneo preindeuropeo. Si ritiene che i sardi della protostoria indicassero la loro terra e se stessi con nomi derivati da questa base.

La più antica sicura attestazione scritta dell’etnico (Srdn) è contenuta nella fenicia “Stele di Nora” risalente alla fine del IX sec. a.C .

Un altro importante documento risale al VI secolo a.C.

Si tratta di un trattato di amicizia stipulato dagli abitanti della potente città magno-greca di Sibari e dal popolo dei Serdàioi, i Sardi secondo alcune accreditate ipotesi, il cui testo fu inciso su una tavola di bronzo che fu deposta nel famoso santuario panellenico di Zeus ad Olimpia.

Diversi studiosi avanzano l’ipotesi che i Sardi siano da riconoscere anche nei Serdan-, uno dei “Popoli del Mare” menzionati nei documenti egiziani tra il XVI e il XIII secolo a.C. Ciò lascerebbe immaginare una civiltà nuragica eccezionalmente avanzata ed intraprendente a livello mediterraneo, aspetti che però l’archeologia non sembra avere ancora adeguatamente documentato.

Note