Mar. Giu 17th, 2025

Clima

Cambiamento climatico. La crisi ambientale è pronta in tavola
‎ Come la crisi ambientale ha chiaramente impattato il modo in cui dobbiamo consumare gli alimenti

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Il cambiamento climatico impatta gravemente sulle nostre vite. Di questo ne siamo al corrente sia d’estate, quando vediamo le temperature in rapida ascesa, sia d’inverno, quando i notiziari parlano delle calotte polari che si sciolgono. Insomma, ne siamo al corrente in tutte quelle situazioni che possono essere riassunte con l’espressione popolare non ci sono più mezze stagioni.

Non siamo però consapevoli di tutto il corollario di problemi alle nostre vite che il cambiamento climatico porta e che, apparentemente, non sembrano avere nulla a che vedere con i fenomeni meteorologici.

La maggior parte delle persone, quando pensa agli effetti del cambiamento climatico, non pensa mai oltre al concetto di perdita della biodiversità. Eppure, la crisi ambientale porta con sé varie problematiche, soprattutto a livello sanitario. Una di quelle problematiche riguarda proprio le nostre abitudini di consumo alimentare e le sostanze negative che ingeriamo con il cibo.

Cambiamento climatico, cibo e contaminazione da microplastiche

fotografia di microplastiche
Inquinamento plastiche nelle Hawaii (foto Alfo Medeiros)

Un’indagine dell’Università di Newcastle, commissionata dal WWF, ha osservato che in media consumiamo 5 grammi di plastica alla settimana, ovvero l’equivalente di una carta di credito.

La contaminazione da microplastiche è un problema alimentare importante, che impatta la popolazione mondiale da decenni. Più precisamente tutto è iniziato nel 1973, quando cominciano a essere brevettate le prime bottiglie in PET per l’acqua e le bevande, che hanno aperto la strada ai contenitori alimentari in plastica.

Il contatto del cibo con piatti monouso, contenitori in plastica riutilizzabili o confezioni di materiale plastico in generale porta infatti a una contaminazione importante degli alimenti ed è responsabile dell’elevato circolo di microplastiche nel nostro organismo.

C’è poi la contaminazione chimica da pesticidi e fitofarmaci

Quando si parla di intossicazioni alimentari il primo pensiero va sempre al cibo scaduto o avariato, ma le intossicazioni riguardano anche le contaminazioni da prodotti chimici e veleni.

Quindi non sono solo le plastiche il problema. Secondo l’OMS ogni anno sono oltre 23 milioni le persone che, solo nella zona euroasiatica, si ammalano a causa del cibo che consumano. Di queste sono circa 5 mila che perdono la vita a causa delle contaminazioni alimentari.

Nello specifico, la frutta e la verdura che mangiamo è spesso contaminata da agenti nocivi e pesticidi che finiscono direttamente nel nostro organismo e che di conseguenza possono condurre a malattie che vanno dalla dissenteria fino allo sviluppo di tumori.

Cosa dicono i report

Secondo il dossier annuale di Legambiente del 2024, seppure solo l’1,36% dei cibi analizzati presentava residui di fitofarmaci superiori ai limiti consentiti (chiamati LMR), in generale il 41,32% dei cibi sotto esame presentava tracce di residui di uno o più pesticidi. Questo comporta di conseguenza a un gravissimo pericolo per la nostra salute, dato che sostanzialmente finiamo di rischiare l’intossicazione quando mangiamo prodotti agricoli.

Come conferma lo stesso dossier, anche se in misura ridotta (solo il 3,31% di alimenti di origine animale risulta ‘contaminato’), il rischio non riguarda solo il settore primario, poiché anche la produzione di carne e pesce è legata agli stessi fattori di rischio. Gli animali di cui è composta la dieta mediterranea infatti sono per la maggior parte erbivori, e quindi vittime dell’uso dei fitofarmaci e della presenza di microplastiche, che a causa dell’inquinamento ambientale possono essere trovate su tutta la superficie terrestre.

Non solo agricoltura e allevamenti. La contaminazione arriva anche nella pescagione

Il pesce, d’altro canto, si nutre di ciò che trova in acqua, mangiando spesso spazzatura e assimilando dal mare sostanze chimiche negative come il mercurio, di cui vengono scaricate 85mila tonnellate all’anno solo nel bacino del Mediterraneo.

Secondo la Fondazione Umberto Veronesi, più il pesce è di grande taglia più sono gli inquinanti nocivi che assorbe, rendendo esemplari come il tonno e il pesce spada, ma anche salmone e merluzzo, alimenti a rischio di intossicazione per l’uomo. I pesci piccoli invece, come alici, trote o l’halibut, hanno invece meno possibilità di essere contaminati, dato il loro breve ciclo vitale e la conseguente minore possibilità di assumere sostanze dannose dall’ambiente, ma sono comunque a rischio di ingestione di spazzatura e microplastiche, rischiando di contaminare allo stesso modo e con gli stessi rischi i nostri piatti.

Dieta, chilometro zero, eco-sostenibilità

La crisi ambientale, quindi, ha chiaramente impattato il modo in cui possiamo e dobbiamo consumare gli alimenti, ma non solo: A causa delle pratiche inquinanti e delle cosiddette “politiche verdi” che si traducono in greenwashing messe in atto su scala internazionale, i cibi importati hanno prezzi al caso migliore fluttuanti oppure alti e fissi.

Questo, teoricamente, dovrebbe portarci a favorire il mercato locale, che però proprio perché tale rincara sui prezzi sfruttando il marchio del “Chilometro Zero”, rendendo la spesa per i prodotti agricoli economicamente insostenibile per un italiano medio, che si trova sempre a consumare cibo contaminato.

Questo ha portato le nostre abitudini alimentari a cambiare radicalmente. Dove prima le verdure e la frutta erano una parte fondamentale nel pasto per la tradizione mediterranea, ora i prodotti a disposizione sono di qualità inferiore e il prezzo è schizzato comunque alle stelle.

In sintesi mangiamo sempre più spesso cibi non salutari, saturi e processati solo perché abbattono il nostro scontrino al supermercato, ma che poi hanno un impatto ecologico superiore a causa dell’utilizzo di quintali di imballaggi in plastica (che come abbiamo precedentemente appurato, contaminano il nostro cibo) e prodotti derivanti da pratiche ambientali meno sostenibili come quelle degli allevamenti intensivi e della sovrapproduzione.

Siamo dunque vittime di un circolo vizioso ambientale di matrice capitalista, dal quale non abbiamo i soldi per uscire e quindi continuiamo a comprare prodotti non sostenibili che riducono progressivamente il nostro potere d’acquisto e ci rendono incapaci di uscire da questa situazione.


Dunque il cambiamento climatico stravolge tutto. Ma noi cosa possiamo fare?

D’altronde, il problema vale anche per i produttori. Un mancato uso di fitofarmaci comporta infatti una perdita superiore di prodotto durante la raccolta a causa degli organismi e delle piante su cui agiscono pesticidi ed erbicidi, con conseguente perdita economica per l’agricoltore.

Si potrebbe pensare a un boicottaggio, ma sarebbe impraticabile: Il settore primario produce la maggior parte degli alimenti che consumiamo abitualmente, a partire dai vegetali agli alimenti sostitutivi della carne e dei formaggi come burger vegetali, burger di soia o tofu, ma anche tutti quei prodotti derivanti dal grano come pasta e pane (e tutti i prodotti a base farinosa) o ancora i condimenti e le bevande naturali oppure spezie, olio e vino. Boicottare questa filiale significherebbe eliminare due terzi della piramide alimentare dalla nostra dieta, compromettendo gravemente il nostro stato di salute e di nutrimento.

L’unica soluzione potrebbe essere quella di ricercare i produttori sostenibili (ed economici) che operano nelle nostre zone, quando non ci è possibile produrre autonomamente gli alimenti e adottare abitudini di consumo e di acquisto sostenibile.

L’ambiente è in condizioni peggiori dell’economia: 16.928 specie a rischio

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Con una dettagliata analisi della Lista rossa (Red List) delle specie minacciate, a ridosso del countdown 2010 fissato dai governi per ridurre la perdita della biodiversità, il rapporto ‘Wildlife in a changing world’ dell’Iucn parla chiaro: “l’obiettivo del 2010 non sarà raggiunto“.

La vita sulla Terra è in grave pericolo“, e “nonostante l’impegno dei leader del mondo a invertire la tendenza”, la crisi della natura è “peggiore della crisi economica“: è lo scenario descritto nel rapporto redatto dall’Unione mondiale per la conservazione della natura (International union for conservation of nature).

I segnali sono evidenti e sotto gli occhi di tutti: oceani e mari senza pesci, la perdita di oltre un quarto delle barriere coralline, niente insetti impollinatori, cambiamenti climatici che “mangiano” ecosistemi e il 25% dei mammiferi sulla strada dell’estinzione.

Obiettivo 2010 – Per il vicedirettore del programma specie dell’Iucn, Jean-Christophe Vie:

È il momento di riconoscere che la natura è la più grande società di lavoro sulla Terra, a vantaggio del 100% di tutta l’umanità. I governi dovrebbero sforzarsi nel risparmiare la natura come nell’economia

Fino al 2010, dice il direttore generale della Red list dell’Iucn, Craig Hilton Taylor, “la comunità mondiale deve usare saggiamente questa relazione“, mentre per il presidente dell’Iucn species survival commission, Simon Stuart.

Se non affrontiamo le cause di insostenibilità del nostro Pianeta, i nobili obiettivi dei governi per ridurre il tasso di estinzione non contano nulla

Sos natura – La relazione, pubblicata ogni quattro anni, analizza 44.838 specie della Red list

Lo studio mostra che 869 specie sono estinte e come si arrivi a 1.159 aggiungendo le 290 specie a rischio di estinzione contrassegnate come probabilmente estinte.

Nel complesso, almeno 16.928 specie sono minacciate di estinzione.

Considerando che è stato analizzato solo il 2,7% degli 1,8 milioni di specie descritte, è “un numero che fornisce una sottostima, ma offre un utile quadro di ciò che sta succedendo a tutte le forme di vita sulla Terra“.

Oceani senza pesci e cambiamenti climatici – I cambiamenti climatici, in parte, contribuiscono alla perdita di habitat ‘mangiando’ le caratteristiche principali dei diversi ecosistemi.

Con una quota significativa di specie che non sono attualmente minacciate di estinzione ma che sono sensibili ai cambiamenti climatici

Questo include il 30% di uccelli non minacciati, il 51% di coralli non minacciati e il 41% dei non-anfibi minacciati. Viene segnalato anche un rapido declino per i coralli.

Secondo la relazione in Europa, per esempio, il 38% di tutti i pesci sono minacciati e il 28% in Africa orientale.

Negli oceani, il quadro è altrettanto “desolante”: una vasta gamma di specie marine stanno vivendo “una potenziale irreversibile perdita” dovuta a pesca eccessiva, cambiamenti climatici, specie invasive, sviluppo costiero e inquinamento.

Almeno il 17% delle 1.045 specie di squali, il 12,4% di cernie e 6 tartarughe marine su 7 sono minacciate di estinzione.

Il 27% delle 845 specie di coralli sono a rischio, il 20% è minacciato da vicino e per il 17% deve esser valutato.

A rischio il 25% dei mammiferi – La relazione dell’Iucn mostra come quasi un terzo degli anfibi, più di uno su otto, siano uccelli e quasi un quarto dei mammiferi sono minacciati di estinzione.

La distruzione degli habitat, attraverso agricoltura, disboscamento e sviluppo, sono la principale causa.

Per i mammiferi, è insostenibile la caccia, che è la minaccia più grave dopo la perdita di habitat. Questo, sta avendo un grande impatto in Asia, dove la deforestazione ha un tasso molto rapido.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Note

  • Foto di copertina File (Wikimedia Commons)
  • Articolo pubblicato nel 2009
  • Grafica copertina ©RIPRODUZIONE RISERVATA
  • Fonte: NOTIZIE.TISCALI.IT

Greenpeace: caldo e mucillagini, mediterraneo soffoca

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ROMA – Sempre più caldo e acido, con una proliferazione di mucillagini dall’Adriatico al Tirreno: il Mediterraneo soffoca e si presenta ogni estate con un malanno in più o più grave.

A rischio non solo l’ambiente ma anche la nostra sicurezza alimentare e il turismo.

A lanciare l’allarme rosso per il Mare Nostrum è Greenpeace in un inedito dossier dal titolo ‘Un mare d’inferno-il Mediterraneo e il cambiamento climatico che per la prima volta mette tutte insieme, nero su bianco, le emergenze documentate.

“Per il Mediterraneo finora abbiamo per così dire navigato per ‘spot’, cioè a seconda dei singoli allarmi. Ora invece – ha detto all’ANSA Alessandro Giannì responsabile campagne Greenpeace e curatore del dossier – abbiamo finalmente il quadro completo di quello che succede a tavola, nel turismo, nell’ambiente”. In particolare, scrive Greenpeace “il Mediterraneo è già cambiato e in peggio”.

Negli strati profondi del Mediterraneo é stato dimostrato un aumento annuo di temperatura dell’ordine di 0,004 gradi ma “più in superficie, e lungo le coste, l’ aumento delle temperature è di gran lunga maggiore.

L’aumento medio registrato nel Mediterraneo nord-occidentale è di un grado negli ultimi trenta anni, mentre l’ondata di calore del 2003 è stato l’evento più caldo registrato sott’acqua (oltre che su terraferma in Europa) degli ultimi 500 anni”.

Le conseguenze sono sulla pesca ma anche su specie di spugne, coralli (compreso il corallo rosso) e gorgonie. Altro fenomeno sempre più frequente le mucillagini sia in Adriatico che nel Tirreno: l’effetto soffocamento dei fondali può essere grave.

A RISCHIO ALTO ADRIATICO, SUD E TIRRENO DEL NORD

Kenneth J. Gill – Studenti in protesta (2022)

Alto Adriatico, mari del sud Italia (Sicilia, Puglia e Calabria), e Alto Tirreno (soprattutto Arcipelago Toscano e mar Ligure): queste le tre aree del mare italiano che registrano i cambiamenti climatici già in atto.

A scattare la fotografia dei rischi delle acque made in Italy il responsabile campagne di Greenpeace, Alessandro Giannì, curatore del dossier ‘Un mare d’inferno-il Mediterraneo e il cambiamento climatico, che raccoglie i documenti scientifici del fenomeno riscaldamento. Ecco in particolare le aree più sensibili in Italia:

ALTO ADRIATICO e DELTA DEL PO

È una delle aree più sensibili ai cambiamenti climatici perché è un’area particolare, è un mare chiuso e più sensibile sia alla temperatura in aumento che ai cambiamenti del livello del mare.

MARI MERIDIONALI

Le acque di Sicilia, Puglia e Calabria, per ragioni geografiche, sono colpite dal fenomeno delle specie ‘aliene’ quelle specie cioè che non fanno parte del nostro patrimonio nativo ma che, provenienti soprattutto dal Canale di Suez si, sono installate nei nostri mari e, favorite da condizioni climatiche.

ALTO TIRRENO E MAR LIGURE

Espansione di specie sempre più a nord come i barracuda (nel ’93 assenti dall’Isola d’Elba e ora presenti e con ciclo vitale) o il colorato donzella pavonia. Ma anche il luccio di mare, caratteristico in Sicilia, e oggi nel Mar Ligure dove era assente fino a 15 anni fa.

Per non parlare delle alghe come la Caulerpa racemosa, proveniente dalla Libia, che ha coperto gran parte dei fondali soprattutto dell’Arcipelago Toscano (40% dei fondali dell’isola di Montecristo) e a Livorno, presente anche a soli 30 centimetri di profondità, quindi anche nelle pozze di scogliera. Segnalazioni arrivano anche dalla Sicilia.

Per la Caulerpa taxifolia (l’alga killer, che negli anni ’90 ha fatto parlare molto di se’ e mangiatrice della Posidonia, la pianta che dà ossigeno al Mediterraneo), un enorme nucleo è presente tra l’Italia e la Francia (da dove è partita), un’altra piccola chiazza è presente a Livorno, poi altre chiazze all’Isola d’Elba e in Sicilia nel parco delle Egadi.

SANTUARIO DEI CETACEI

Il triangolo tra la Toscana, la Liguria, il Principato di Monaco e la Corsica sembra spopolarsi di balene e delfini che invece dovrebbero godere di questa ‘casa’ creata per loro.

“La diminuzione di cetacei nel Santuario – ha detto Giannì – sembra legata all’effetto clima ma, per ora, sono solo sospetti e non ci sono pubblicazione scientifiche in grado di dimostrarlo”.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Note