Mar. Giu 10th, 2025

E. Polzella

Redattore presso Nuova Isola. Fondatore vocigiovanili.it

Referendum 8 e 9 giugno. Fratelli e fratellastri d’Italia
‎ L’elmo di Scipione Africano, quello decantato da Mameli nel Canto degli Italiani, sembra essere troppo stretto per accogliere tutti i suoi figli.

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Italiani veri, ma non per tutti. In Italia, secondo un’elaborazione di Openpolis, nel 2023 erano 1 milione i ragazzi di seconda generazione (ovvero quelli nati in Italia ma con genitori immigrati, NdR). Si parla di ragazzi e ragazze che hanno studiato in Italia tutta la vita. Per intenderci queste persone pensano, scrivono e leggono in italiano. Alcuni di questi già lavorano oppure lavoreranno in Italia, contribuendo allo sviluppo del nostro territorio, del nostro paese e della nostra economia, pagando le tasse qui.

Immigrati di seconda generazione. Non solo i nati in Italia

Nella seconda generazione, però, possono rientrare secondo alcuni studiosi anche i figli di quei migranti che non sono nati in Italia, ma sono stati portati qui dai genitori già da piccolissimi. Queste persone infatti affrontano lo stesso percorso di un bambino nato in Italia da genitori italiani o di un bambino nato in Italia da genitori stranieri. Attualmente però per questi casi l’iter per la cittadinanza non è lo stesso.

Partiamo dall’inizio. Come si ottiene la cittadinanza

Per i figli di genitori italiani vige il diritto di sangue (lo ius sanguinis) per il quale è italiano ogni persona con almeno un genitore con cittadinanza italiana. Per le persone nate da genitori stranieri nati in Italia, nella maggior parte dei casi, la cittadinanza può essere richiesta al compimento del diciottesimo anno di età, a patto di poter dimostrare di aver vissuto ininterrottamente in Italia da tutta la vita. Chi è nato all’estero da genitori stranieri, invece, la procedura è molto più complessa.

I nati all’estero da madre e padre stranieri

Se i genitori non acquisiscono la cittadinanza quando i bambini sono ancora minorenni, scattato il diciottesimo anno di età i ragazzi possono fare richiesta come ogni altro cittadino straniero, a patto di essere in possesso di requisiti specifici:

  • Residenza stabile in Italia da dieci anni;
  • Conoscenza certificata della lingua italiana almeno a livello B1;
  • Reddito minimo di 8.263,61 euro all’anno, a patto di essere celibi o nubili (altrimenti la cifra sale);
  • Assenza di condanne penali.

Queste regole valgono solo per i cittadini extracomunitari. I cittadini UE invece possono richiedere la cittadinanza dopo soli quattro anni, se sono già in possesso degli altri requisiti.

Gli italiani lasciati indietro. Burocrazia e requisiti irragiungibili

Facsimile documento di identità italiano (CC0 1.0)

Letto così, a discapito dell’evidente discriminazione tra cittadini europei e non europei, potrebbe anche sembrare un processo abbastanza lineare, ma bisogna considerare vari fattori.

In primis, la residenza stabile si dimostra con i contratti d’affitto, che spesso i proprietari di casa tendono a non fare in regola, o con le prove dell’acquisto di una casa e la residenza legale presso quell’indirizzo, quando però acquistare una casa costa parecchi soldi che spesso neanche gli Italiani per ius sanguinis hanno.

In secondo luogo, se consideriamo il reddito, quello dev’essere dimostrato da contratti in regola e soprattutto dev’essere continuativo nei tre anni precedenti alla richiesta. Con la condizione del precariato in Italia, dove spesso si è costretti ad accettare di lavorare senza contratto o dove si viene licenziati ingiustamente dal giorno alla notte, il requisito del reddito continuativo è già difficilmente ottenibile, e comunque da solo non basta.

Le procedure burocratiche spesso si protraggono per anni. Questi si aggiungono ai già dieci di residenza, arrivando quindi anche a quindici o vent’anni. I giudici nel mentre cancellano o rimandano udienze, le leggi cambiano e le procedure si modificano. Questo trasforma la cittadinanza italiana in un’oasi nel deserto per tutti quegli Italiani che ancora non lo sono su carta.

Come si è arrivati al referendum dell’8 e 9 giugno

L’anno scorso, il comitato di Referendum Cittadinanza, sostenuto da varie forze politiche di centro, centrosinistra e sinistra, ha lanciato un referendum di iniziativa popolare volto a modificare il tetto da dieci a cinque anni per i cittadini extra comunitari.

In soli 20 giorni, gli italiani hanno aderito in massa all’iniziativa raggiungendo 637.487 firme (su 500.000 necessarie, raggiunte il 24 settembre 2024), mandando più volte in down il sito del Ministero della Giustizia volto alle iniziative popolari. La Corte Costituzionale, poi, ha dichiarato ammissibile il referendum, e gli elettori sono stati convocati alle urne per i prossimi 8 e 9 giugno.

Referendum cittadinanza. Figli d’Italia ma non suoi cittadini

Ispirato da uno degli ultimi post dell’account Instagram dell’attivista Madonnafreeda dal titolo Fatevi cinque giorni nella vita di un immigrato, poi vediamo se cinque anni sono troppo pochi, decido di cercare qualcuno che abbia vissuto sulla sua pelle l’iter per capirne meglio le implicazioni.

Quando parlo con Maria Pascaru, studentessa ventisettenne di Anglistica presso La Sapienza, mi dice subito che lei vive qui da vent’anni ed è arrivata dalla Moldavia da quando ne aveva sette. Si è integrata, ha studiato e frequentato amici e compagni italiani.

«Quando sei piccolo non capisci perché le persone si comportino in questo modo con te o perché tu venga percepito come un alieno». Ci ridacchia sopra, mentre mi racconta della scuola. Mi dice anche di essere cresciuta con una madre single.

Quest’ultimo fatto ha danneggiato i suoi requisiti, a causa del reddito familiare troppo basso che non le permetteva di fare richiesta di cittadinanza. Alla fine è riuscita a farla solo a dicembre 2021, ottenendola a dicembre 2024.

Nessuna scorciatoia o privilegio. Solo un riconoscimento

«Moltissimi miei amici mi hanno detto che era scontato che avessi dovuto averla per il modo in cui mi sono integrata, per quanto parlo bene visto che molti italiani non sanno usare nemmeno il congiuntivo [ride], per tutto quello che io, mia madre e mio fratello abbiamo investito qui».

Mi parla poi delle sue difficoltà:
«Dieci anni te li fai, devi avere un aggancio economico per potertelo permettere perché ormai il posto fisso non si trova più. Quando ho fatto richiesta, Salvini aveva fatto alzare di cinquanta euro il bollettino, e che fai, te li paghi. Con i documenti da far tradurre all’ambasciata si alza tutto a tre piotte (trecento euro, NdR) più o meno».

«Quando dovevamo firmare [per l’approvazione del referendum], io non potevo ancora e facevo girare e firmare agli amici perché non era ancora molto conosciuta l’iniziativa».

Continua, prima di dirmi che sta cercando di capire come fare la tessera elettorale per votare al referendum e quanto si senta felice di non dover più fare la fila per rinnovare il permesso di soggiorno.

«È un’Odissea continua, chi dice che la regalano a tutti non ha idea di quanto faccia schifo quel sito (il sito delle richieste per la cittadinanza, NdR), ti chiedono pure i peli che hai sul corpo».

Poi, infine aggiunge:
«Mia madre se n’è accorta, di come veniamo trattati in maniera diversa da quando abbiamo la cittadinanza, sono molto più gentili con noi».

(in copertina immagine di repertorio Edmond Dantès)

©RIPRODUZIONE RISERVATA


Cambiamento climatico. La crisi ambientale è pronta in tavola
‎ Come la crisi ambientale ha chiaramente impattato il modo in cui dobbiamo consumare gli alimenti

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Il cambiamento climatico impatta gravemente sulle nostre vite. Di questo ne siamo al corrente sia d’estate, quando vediamo le temperature in rapida ascesa, sia d’inverno, quando i notiziari parlano delle calotte polari che si sciolgono. Insomma, ne siamo al corrente in tutte quelle situazioni che possono essere riassunte con l’espressione popolare non ci sono più mezze stagioni.

Non siamo però consapevoli di tutto il corollario di problemi alle nostre vite che il cambiamento climatico porta e che, apparentemente, non sembrano avere nulla a che vedere con i fenomeni meteorologici.

La maggior parte delle persone, quando pensa agli effetti del cambiamento climatico, non pensa mai oltre al concetto di perdita della biodiversità. Eppure, la crisi ambientale porta con sé varie problematiche, soprattutto a livello sanitario. Una di quelle problematiche riguarda proprio le nostre abitudini di consumo alimentare e le sostanze negative che ingeriamo con il cibo.

Cambiamento climatico, cibo e contaminazione da microplastiche

fotografia di microplastiche
Inquinamento plastiche nelle Hawaii (foto Alfo Medeiros)

Un’indagine dell’Università di Newcastle, commissionata dal WWF, ha osservato che in media consumiamo 5 grammi di plastica alla settimana, ovvero l’equivalente di una carta di credito.

La contaminazione da microplastiche è un problema alimentare importante, che impatta la popolazione mondiale da decenni. Più precisamente tutto è iniziato nel 1973, quando cominciano a essere brevettate le prime bottiglie in PET per l’acqua e le bevande, che hanno aperto la strada ai contenitori alimentari in plastica.

Il contatto del cibo con piatti monouso, contenitori in plastica riutilizzabili o confezioni di materiale plastico in generale porta infatti a una contaminazione importante degli alimenti ed è responsabile dell’elevato circolo di microplastiche nel nostro organismo.

C’è poi la contaminazione chimica da pesticidi e fitofarmaci

Quando si parla di intossicazioni alimentari il primo pensiero va sempre al cibo scaduto o avariato, ma le intossicazioni riguardano anche le contaminazioni da prodotti chimici e veleni.

Quindi non sono solo le plastiche il problema. Secondo l’OMS ogni anno sono oltre 23 milioni le persone che, solo nella zona euroasiatica, si ammalano a causa del cibo che consumano. Di queste sono circa 5 mila che perdono la vita a causa delle contaminazioni alimentari.

Nello specifico, la frutta e la verdura che mangiamo è spesso contaminata da agenti nocivi e pesticidi che finiscono direttamente nel nostro organismo e che di conseguenza possono condurre a malattie che vanno dalla dissenteria fino allo sviluppo di tumori.

Cosa dicono i report

Secondo il dossier annuale di Legambiente del 2024, seppure solo l’1,36% dei cibi analizzati presentava residui di fitofarmaci superiori ai limiti consentiti (chiamati LMR), in generale il 41,32% dei cibi sotto esame presentava tracce di residui di uno o più pesticidi. Questo comporta di conseguenza a un gravissimo pericolo per la nostra salute, dato che sostanzialmente finiamo di rischiare l’intossicazione quando mangiamo prodotti agricoli.

Come conferma lo stesso dossier, anche se in misura ridotta (solo il 3,31% di alimenti di origine animale risulta ‘contaminato’), il rischio non riguarda solo il settore primario, poiché anche la produzione di carne e pesce è legata agli stessi fattori di rischio. Gli animali di cui è composta la dieta mediterranea infatti sono per la maggior parte erbivori, e quindi vittime dell’uso dei fitofarmaci e della presenza di microplastiche, che a causa dell’inquinamento ambientale possono essere trovate su tutta la superficie terrestre.

Non solo agricoltura e allevamenti. La contaminazione arriva anche nella pescagione

Il pesce, d’altro canto, si nutre di ciò che trova in acqua, mangiando spesso spazzatura e assimilando dal mare sostanze chimiche negative come il mercurio, di cui vengono scaricate 85mila tonnellate all’anno solo nel bacino del Mediterraneo.

Secondo la Fondazione Umberto Veronesi, più il pesce è di grande taglia più sono gli inquinanti nocivi che assorbe, rendendo esemplari come il tonno e il pesce spada, ma anche salmone e merluzzo, alimenti a rischio di intossicazione per l’uomo. I pesci piccoli invece, come alici, trote o l’halibut, hanno invece meno possibilità di essere contaminati, dato il loro breve ciclo vitale e la conseguente minore possibilità di assumere sostanze dannose dall’ambiente, ma sono comunque a rischio di ingestione di spazzatura e microplastiche, rischiando di contaminare allo stesso modo e con gli stessi rischi i nostri piatti.

Dieta, chilometro zero, eco-sostenibilità

La crisi ambientale, quindi, ha chiaramente impattato il modo in cui possiamo e dobbiamo consumare gli alimenti, ma non solo: A causa delle pratiche inquinanti e delle cosiddette “politiche verdi” che si traducono in greenwashing messe in atto su scala internazionale, i cibi importati hanno prezzi al caso migliore fluttuanti oppure alti e fissi.

Questo, teoricamente, dovrebbe portarci a favorire il mercato locale, che però proprio perché tale rincara sui prezzi sfruttando il marchio del “Chilometro Zero”, rendendo la spesa per i prodotti agricoli economicamente insostenibile per un italiano medio, che si trova sempre a consumare cibo contaminato.

Questo ha portato le nostre abitudini alimentari a cambiare radicalmente. Dove prima le verdure e la frutta erano una parte fondamentale nel pasto per la tradizione mediterranea, ora i prodotti a disposizione sono di qualità inferiore e il prezzo è schizzato comunque alle stelle.

In sintesi mangiamo sempre più spesso cibi non salutari, saturi e processati solo perché abbattono il nostro scontrino al supermercato, ma che poi hanno un impatto ecologico superiore a causa dell’utilizzo di quintali di imballaggi in plastica (che come abbiamo precedentemente appurato, contaminano il nostro cibo) e prodotti derivanti da pratiche ambientali meno sostenibili come quelle degli allevamenti intensivi e della sovrapproduzione.

Siamo dunque vittime di un circolo vizioso ambientale di matrice capitalista, dal quale non abbiamo i soldi per uscire e quindi continuiamo a comprare prodotti non sostenibili che riducono progressivamente il nostro potere d’acquisto e ci rendono incapaci di uscire da questa situazione.


Dunque il cambiamento climatico stravolge tutto. Ma noi cosa possiamo fare?

D’altronde, il problema vale anche per i produttori. Un mancato uso di fitofarmaci comporta infatti una perdita superiore di prodotto durante la raccolta a causa degli organismi e delle piante su cui agiscono pesticidi ed erbicidi, con conseguente perdita economica per l’agricoltore.

Si potrebbe pensare a un boicottaggio, ma sarebbe impraticabile: Il settore primario produce la maggior parte degli alimenti che consumiamo abitualmente, a partire dai vegetali agli alimenti sostitutivi della carne e dei formaggi come burger vegetali, burger di soia o tofu, ma anche tutti quei prodotti derivanti dal grano come pasta e pane (e tutti i prodotti a base farinosa) o ancora i condimenti e le bevande naturali oppure spezie, olio e vino. Boicottare questa filiale significherebbe eliminare due terzi della piramide alimentare dalla nostra dieta, compromettendo gravemente il nostro stato di salute e di nutrimento.

L’unica soluzione potrebbe essere quella di ricercare i produttori sostenibili (ed economici) che operano nelle nostre zone, quando non ci è possibile produrre autonomamente gli alimenti e adottare abitudini di consumo e di acquisto sostenibile.